di Anna Detheridge
Il discreto fascino dei Maramotti, titolari della Max Mara, industriali e banchieri di successo, degni eredi di una borghesia all'antica, si legge di riflesso nella collezione cominciata dal padre Achille circa 35 anni fa, continuata dai suoi figli Luigi, Ignazio e Maria Ludovica dopo la sua scomparsa nel gennaio del 2005. Il 29 settembre una selezione di oltre duecento opere, realizzate dal dopoguerra a oggi, verrà presentata al pubblico nell'ex stabilimento in via Fratelli Cervi 66 a Reggio Emilia. Niente pubblicità, nessun evento spettacolo, un'inaugurazione soltanto per amici e appassionati d'arte: uno stile che si distingue volutamente da una certa chiassosa mondanità.
E la collezione riserva una quantità di sorprese a cominciare dalla voluta parsimonia delle informazioni e dalla scritta introduttiva di Walter Benjamin che descrive il collezionista come colui che intraprende una lotta contro la dispersione, «colpito dalla confusione e dalla frammentarietà in cui versano le cose di questo mondo». Una concezione del proprio ruolo che ha una valenza intellettuale, di chi riunisce «ciò che è affine», dando forma a un discorso possibile, a un articolato tentativo di leggere il proprio tempo.
L'inaugurazione della collezione nell'antica sede razionalista trasformata dall'architetto inglese Andrew Hapgood, che fino a tre anni fa ha ospitato l'azienda di famiglia (oggi collocata in un campus disegnato appositamente dall'architetto ambientalista Peter Walker), rappresenta un omaggio al padre e fondatore, scomparso troppo presto per poter mettere in atto i suoi desideri.
La raccolta di arte contemporanea, cominciata a metà degli anni Settanta, in realtà rappresenta soltanto una parte della verve collezionistica di Achille Maramotti che nasceva con una passione per la pittura emiliana dal Quattro al Seicento e per l'arte moderna, soprattutto italiana. Conosciuto da tutti come uomo di cultura, amico di Montale, grande estimatore di Morandi, fu sensibile cultore della musica, organizzatore in casa propria di serate musicali e assiduo frequentatore di mostre quali la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel.
Ma la costruzione della collezione di arte contemporanea corrisponde, secondo Mario Diacono, letterato, gallerista e suo consigliere negli acquisti, a un vero e proprio progetto: quello di finalizzare le acquisizioni di arte contemporanea alla costituzione di un percorso storico che cogliesse quegli elementi di novità in quanto spie di cambiamento. La pittura resta il filo conduttore delle opere scandite attraverso quaranta sale, con qualche eccezione: in un vuoto indefinibile tra più piani è sospesa l'inquietante sagoma della barca di Claudio Parmiggiani intitolata Caspar David Friedrich (1989).
Dai primi acquisti quali le Achrome di Piero Manzoni, le tele di Twombly, Kounellis e Pino Pascali, le opere dei protagonisti dell'Arte Povera, il collezionista pian piano sembra farsi coraggio. Le sale dedicate ad artisti quali Giulio Paolini e Claudio Parmiggiani sono forse quelle che meglio esprimono l'enigmatica poesia dell'arte italiana e la sua continuità con il passato. La stagione della Transavanguardia con opere dal '78 ai primi anni Ottanta, del neo espressionismo tedesco definiscono un periodo più complesso nei riferimenti, da Mimmo Paladino, a Enzo Cucchi, Sandro Chia, Nicola De Maria, Francesco Clemente, Georg Baselitz e Anselm Kiefer. Ogni tanto, in contrappunto, una nicchietta con gli oggetti preziosi e dissacranti di Luigi Ontani. Negli ampi spazi dell'atrio del primo piano la meravigliosa La frutta siamo noi di Mario Merz.
Al piano superiore, il collezionista scopre l'America, forse anche in virtù del suo lavoro, e cerca nella miriade di proposte che irrompono sul mercato dell'arte contemporanea dagli anni Novanta in poi una sua personale griffe collezionistica.
Questa è una partita che nessuno oggi può giudicare con certezza, tanto meno chi sta dentro il sistema, così inquinato da eccessive quantità di denaro liquido e dall'esigenza di molti collezionisti privati e corporate di farsi un'immagine in tempi brevi. Ciò che si può dire è che le scelte di Maramotti sono state coraggiose con alcune punte di sicura qualità nella predilezione per le tele fredde di Alex Katz, i circuiti colorati di Peter Halley, le geometrie orientali di Philip Taaffe e le ironie giocose di Tom Sachs. Una curiosa anomalia è l'installazione, praticamente l'unica dell'intera collezione, di Vito Acconci.
Ma se il mecenate mette a disposizione la propria collezione gratuitamente, al visitatore viene richiesto un minimo atto di volontà, prenotando la visita al telefono o via internet. Una misura organizzativa, ma anche un principio educativo che i Maramotti non ritengono secondario, quello di stimolare un atteggiamento "attivo", propedeutico all'incontro con le opere e indirettamente con chi le ha scelte.
1Collezione Maramotti, Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia, aperta da sabato 29 settembre 2007 solo su prenotazione, tel. 00393522382484; info@collezionemaramotti.org. www.collezionemaramotti.org
Il collezionista
Achille Maramotti (1927-2005), fondatore della Max Mara e patron
del Credito Emiliano è stato un appassionato collezionista d'arte antica e moderna. Amico di Montale
e di Morandi, appassionato musicofilo e curioso protagonista del panorama artistico del suo tempo, Maramotti
ha iniziato a collezionare arte contemporanea degli anni Settanta frequentando le Biennali di Venezia
e di Kassel alla ricerca di artisti e
opere che segnassero punti di cambiamento e novità.
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