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Duca Borso, che officina!

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Duca Borso, che officina!

di Marco Bona Castellotti
L'impeccabile mostra, curata da Mauro Natale, che Ferrara dedica al l'età del Duca Borso d'Este (1450-1471) è un bel l'esempio di come il rigore della filologia, applicato all'indagine delle opere d'arte, non sia sinonimo di pedanteria, nel senso che l'impianto didascalico e il risultato visivo che sortiscono dal percorso espositivo assicurano un buon effetto sul pubblico grazie all'alta qualità delle opere radunate. Ciò non è scontato, anzi, capita talvolta che mostre ammirevoli per sapienza e filologia debbano pagare, e far pagare, lo scotto di una certa parsimonia, per non dire di una certa grettezza sul piano estetico. Tali mostre vanno per lo più deserte, sì che sono in estinzione. Qui no: la parsimonia è bandita, per la ricchezza veramente rinascimentale e "cortese"dei materiali esposti e per la dovizia dei "prestiti"eccellenti, provenienti d'ogni parte del mondo: bei dipinti su tavola in buone condizioni, magnifici disegni, lussureggianti codici miniati, medaglie al primo stato di fusione e non strapelate come di norma accade di vedere, suppellettili preziosissime, e tutto quanto di meglio vi sia per allestire il sontuoso corredo delle arti prodotte a Ferrara al tempo del Duca Borso.
I tratti del suo volto, così come lo ha immortalato suo fratello Baldassarre e l'ignoto incisore del magnifico ducato d'oro, tutto ispirano tranne la simpatia: un volto gonfio, da mala digestione, sì che non sorprende affatto che nella di lui corte, in anni di tranquilla magnificenza, più che letterati queruli e noiosi, circolassero enigmatici astrologi. Ferrara, città padana, sospesa come poche altre tra sacro e profano, non poteva che ospitarli volentieri, e il Duca alla bisogna consultarli.
Borso è uno dei grandi mecenati di casa d'Este e le arti del suo tempo rientrano in un capitolo della storia che riconosce nel saggio scritto da Roberto Longhi nel 1934 e intitolato Officina ferrarese, un capisaldo della critica. Tuttavia su questo studio un po' datato sono calati giudizi negativi, oltre all'accusa di avere sbarrato l'accesso a molti problemi connessi con quella produzione artistica. Il catalogo che commenta questa mostra di Palazzo dei Diamanti propone interessanti aperture: basta leggere il saggio iniziale, privo di verticismi letterari e di spericolati passaggi filologici, oltre alle pagine dedicate agli affreschi di Palazzo Schifanoia, il cui restauro, dopo un decennio, è giunto alla fine.
Per fare intendere lo sviluppo di gran parte del Quattrocento ferrarese, la mostra si suddivide in sei sezioni, dalle quali si capisce come il carattere della produzione artistica, negli anni di Borso d'Este, sia peculiare, benché pieno di riferimenti a Mantegna, a Piero della Francesca e ai fiamminghi.
Conclusasi la brillante stagione del gotico con Leonello d'Este nel 1450, con il successore Borso si apre il capitolo del Rinascimento, tempestato di smalti e di ori, i cui protagonisti sono miniatori della levatura di Taddeo Crivelli, e pittori come Pannonio, Tura e Cossa.
Dalla mostra Pannonio esce potenziato, grazie alla presenza di alcune belle tavole che fanno intendere quanto intensa fosse la sua concezione dei temi sacri. Tura è senza dubbio più geniale e moderno di lui, essendosi aggiornato alla luce di fatti che, dall'arrivo di Donatello a Padova in poi, diedero una salutare scossa al mondo ancora un po' immerso nel fiabesco del Nord Italia.
Dopo il 1452 Tura risente della lezione di Donatello e di Mantegna, sì da giungere al limite di una drammatizzazione irrazionale che ha dell'eccentrico e quasi del farsesco, basta osservare, in un'anta dell'organo oggi nel Museo del Duomo, le mosse sconnesse della giovane principessa terrorizzata dal drago, che pare un'oca messa in fuga da un trattore.
A Tura è possibile che faccia capo il più grande scultore del Quattrocento dopo Donatello: Niccolò dell'Arca, e, più tardi, a Tura si affiancherà Francesco del Cossa, pittore che nutre una sensibilità meno aspra della sua e preferisce volgersi verso più pacati e classici modelli toscani e bolognesi. Pittore sensibile all'eleganza formale, ma non per questo di superficie, Cossa attutisce i grafismi di Tura e dà vita a moduli ampi, dai contorni morbidi e continui. Attinge da uno scultore come Antonio Rossellino e trova qualche corrispondenza in Domenico di Paris, ma risale anche più indietro nel tempo e va ad approvvigionarsi alla fonte di Luca della Robbia.
Nel palazzo di Schifanoia, insieme a Ercole de' Roberti , che tra i ferraresi è il più geniale, Cossa esegue la serie dei Mesi. Questi affreschi, che Borso d'Este non riuscì a vedere finiti, perché spirò prima della conclusione, sono quanto di più intellettuale sia stato dipinto nel secondo Quattrocento in Italia; nessun'altra impresa seppe, nel senso della capziosità figurativa, gareggiare con loro.
Di lì a un po' un pittore del centro Italia come il Pinturicchio, nella Basilica dell'Aracoeli e in una sede di sommo prestigio come l'appartamento di Alessandro VI Borgia, dipingerà una serie di affreschi, emblema di come sia possibile narrare piacevolmente senza dire gran che. A confronto, la decorazione di Schifanoia apparirà, ancora di più, un caso eccezionale, chiuso tuttavia in sé e senza particolare seguito, tipico di una corte frequentata da astrologi.
1 «Cosmè Tura e Francesco Del Cossa. L'arte a Ferrara nell'età di Borso d'Este», Ferrara, Palazzo dei Diamanti, sino al 6 gennaio 2008. Catalogo Ferrara Arte

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