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Benin, che leopardi!

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Benin, che leopardi!

di Antonio Aimi
«A quattordici o quindici leghe da Gatton si trova una città che gli Olandesi chiamano Gran Benin, perché in effetti non ce n'è una tanto grande in tutti quei paraggi. Il solo palazzo della regina ha un perimetro di tre leghe. Il palazzo del re è un insieme di costruzioni che occupa lo stesso spazio della città di Harlem ed è chiuso da muraglie. Ci sono molte costruzioni per i ministri del Principe e belle "gallerie", la maggior parte delle quali sono grandi come la Borsa di Amsterdam. Esse sono sostenute da pilastri di legno con lastre di rame dove sono raffigurate le loro vittorie. La città è formata da trenta grandi strade, tutte diritte, larghe 120 piedi e da un'infinità di piccole vie trasversali. Le case sono vicine le une alle altre e disposte in buon ordine: hanno tetti, portici e balaustre e sono ombreggiate da palme e banani. In quanto alla pulizia questi popoli non sono inferiori agli Olandesi e lavano così bene le loro case che sono pulite e splendenti come il vetro di uno specchio».
Così nel 1686 il geografo olandese Olfert Dapper descriveva la città di Benin, capitale del regno omonimo, situato nel basso corso del Niger (all'interno dell'attuale Nigeria). Inutile negarlo, si tratta di immagini del l'Africa subsahariana che non rientrano nello stereotipo tradizionale di un mondo tutto capanne di paglia e società rozze e primitive. Eppure l'Africa prima della colonizzazione presentava anche grandi città, regni potenti con una raffinata vita di corte e artisti di straordinario talento. Mentre alcuni di questi regni furono rapidamente sconvolti dall'arrivo degli Europei, altri entrarono in una fase di tumultuoso sviluppo, avviando un fiorente commercio di schiavi e avorio in cambio di leghe metalliche (soprattutto ottone) e armi da fuoco.
Ma questi aspetti sorprendenti dei primi contatti Europa-Africa nera mettono in crisi anche altri due stereotipi del nostro politically correct: quello di una tratta degli schiavi che ricade esclusivamente sulla coscienza dell'«uomo bianco» e di un rapporto con l'Africa sempre e comunque distruttivo. Una preziosa occasione per mettere a fuoco la nostra visione dei mondi "altri" che si estendevano oltre il deserto del Sahara è costituita da un'esposizione che ripercorre la storia proprio della città descritta da Dapper nel XVII secolo. Si tratta della mostra: "Benin. Cinq siècles d'art royal", che dal 2 ottobre è ospitata negli spazi della Galleria Giardino del piano terra del Mqb (Musée du Quai Branly). L'iniziativa, nata dalla collaborazione tra istituzioni prestigiose come il Museum für Völkerkunde di Vienna, l'Ethnologisches Museum di Berlino e l'Art Institute di Chicago e il Mqb, ha riunito per la prima volta al mondo un complesso impressionante di circa trecento opere (in prevalenza sculture in ottone, legno e avorio) provenienti dai più importanti musei del mondo e dalla stessa Benin City.
Come tutte le altre esposizioni del Mqb la mostra ha un taglio prevalentemente etnografico e, seguendo il filo rosso delle opere d'arte realizzate dagli artisti e dagli artigiani della corte, ricostruisce gli splendori del regno del Benin in sei sezioni: la città e il palazzo, la gerarchia sociale e le cerimonie della corte, il commercio con gli Europei, il re, la regina madre e la religione. Inevitabilmente, però, l'occhio del visitatore cade sui due poli magnetici della mostra: le opere che rappresentano alcune delle vette assolute dell'arte africana (le teste della regina madre, i leopardi del Museo nazionale di Lagos, i nani e la testa in avorio del Völkerkunde di Vienna) e le placche che decoravano il palazzo del re e ne celebravano il potere. Da un lato abbiamo delle sculture che nel loro naturalismo idealizzato sembrano avere ben poco di africano, dall'altro le realizzazioni più tipiche del regno del Benin che, pur mostrando scene e personaggi tipicamente "africani" (guerrieri, scene di corte e di caccia, eccetera), tradiscono, tuttavia, una sottile influenza europea. E la lunga fila sinuosa delle vetrine con le placche è un po' la cifra di una mostra e del compromesso arte ed etnografia, che porta a esporre i maestri accanto agli artigiani.

Animali e simboli
La mostra sull'arte africana del MQB è in questo periodo affiancata a un'altra straordinaria rassegna del Musée Dapper: «Animal». A dir la verità il tema della mostra è un pretesto, perché gli animali sono una metafora così pervasiva e universale del linguaggio simbolico dell'arte africana da essere buoni per ogni tipo di percorso espositivo e per qualunque oggetto. Detto questo, tuttavia, bisogna riconoscere che per quanto il tema della mostra sia evanescente, tra le 150 opere esposte, quasi tutte di altissimo livello, compaiono, in linea con la tradizione del museo, alcuni dei più sorprendenti capolavori dell'arte africana come la scimmia Baule che trasuda una forza impressionante ed enigmatica o la maschera ornitorfa Dan dalle linee purissime o le sculture Senufo che con le loro figure metà animali e metà cose sfidano le più ardite invenzioni surrealiste.
1 «Animal», Parigi, Musée Dapper,
fino al 30 marzo 2008. Catalogo
Musée Dapper;
1 «Benin. Cinq siècles d'art royal». Parigi, Musée du Quai Branly, fino al 6 gennaio 2008. Catalogo Snoeck.

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