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Se il colore sta alla finestra

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In Primo Piano

Se il colore sta alla finestra

di Enrico Castelnuovo
Alla fine del trecento risale il manoscritto di una «Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro» conservato nella biblioteca comunale di Assisi, dovuta a «mastro Antonio da Pisa singulare mastro in tale arte». Era, questi, un religioso su cui gli archivi di Pisa e di Firenze conservano numerosi documenti che lo mostrano attivo nelle due città tra il 1380 e il 1420 e di cui in Santa Maria del Fiore esiste una vetrata fatta su disegno di Agnolo Gaddi. Anche se nella storia della vetrata l'Italia occupa un posto minore rispetto a quello della Francia, della Germania o dell'Inghilterra, tuttavia tra la fine del XIII e quella del XIV secolo il suo ruolo in questa vicenda fu assai importante, quando venne creata la splendida vetrata circolare della cattedrale di Siena, vennero chiuse con vetri le finestre della cappella della chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi e venne invetriata la altissima finestra che chiude il coro della cattedrale di Orvieto.
Pittori e artigiani nella Toscana del Trecento sapevano per lo più leggere e scrivere e alcuni avevano anche velleità letterarie. Niente di strano che in questa situazione che un maestro vetraio abbia avuto l'idea di abbozzare un breve trattato sull'arte della vetrata.
Non è il primo testo medievale su questa tecnica. Già nel XII secolo nella Germania settentrionale un monaco che si firmava Theophilus aveva dedicato uno dei tre libri del suo trattato De diversis artibus all'arte del vetro. Rispetto al tono alto e ispirato del latino di quest'opera scritta da un monaco assai colto il testo di Antonio, semplice prete che viveva e lavorava due secoli e mezzo più tardi in grandi città mercantili come Pisa e Firenze e scriveva in volgare, è un autentico libro di bottega fatto per dare risposta a un certo numero di questioni che potevano presentarsi al maestro vetraio e che andavano dalle ricette tecniche ai consigli economici.
Vi si parla della scelta dei colori adatti ai personaggi rappresentati, delle ricette per fare i diversi tipi di grisaglia per dipingere i vetri, del modo di tagliarli e di dipingerli, della fabbricazione del forno per cuocerli una volta dipinti, della confezione dei piombi, del modo di restaurare una vetrata antica e di renderle la luminosità. Redatto in modo diretto, senza pretese letterarie è un testo che permette di entrare nel laboratorio di un maestro vetraio, dà modo di conoscere i suoi saperi, i suoi materiali, i suoi strumenti, il suo modo di lavorare, le differenti richieste che gli venivano fatte, i suoi rapporti con i committenti.
Di maestro Antonio è rimasta, oltre al suo libro e ai documenti che lo riguardano, una vetrata certamente di sua mano, nel Duomo di Firenze. Su questa fortunata coincidenza ha lavorato e confrontato i propri risultati un gruppo di studiosi francesi che comprendeva storici dell'arte paleografi, archivisti, storici della tecnologia, chimici. Per poter comprendere la ricchezza delle informazioni conservate in questo testo, già più volte pubblicato dalla fine dell'Ottocento bisognava sottoporlo a letture diverse e, nel confronto con la vetrata, tentare di riprodurre in una sorta di archeologia sperimentale le ricette e le indicazioni che ne venivano: dalla costruzione di un forno alla composizione dei vetri, dal modo di incidere i vetri rossi con l'aiuto di acidi alla fabbricazione delle forme per colarvi i piombi alle ricette per saldarli. Questo attento e innovativo lavoro interdisciplinare sperimentalmente supportato ha portato nuovi dati su una questione aperta e cioè sul ruolo del maestro vetraio rispetto a quello del pittore nella creazione di una vetrata.
In un capitolo, il CLXXI, «Come si lavorano in vetro finestre» del suo Libro dell'arte, Cennino Cennini risolve sbrigativamente la questione attribuendo il ruolo preponderante al pittore e parla dei vetrai come di artigiani che avevano «più pratica che disegno» e che si rivolgevano a «chi ha l'arte compiuta» sia per avere i cartoni per la vetrata, sia per dipingere i vetri. Nell'immagine che ne dà Cennino – un pittore, non dimentichiamolo – il maestro vetraio è un semplice esecutore che taglia i vetri secondo i disegni del pittore, procede alla loro cottura una volta che da lui siano stati dipinti e per finire li congiunge grazie al reticolo dei piombi. Questo testo ha molto influenzato gli storici dell'arte specialmente italiani che trattando di vetrate hanno preso l'abitudine di attribuirne ogni merito al pittore dando scarsa importanza al ruolo del maestro vetraio. Una gerarchizzazione che ha fatto sì che parlando delle vetrate fiorentine di fine Trecento si ricordino i nomi dei pittori, Agnolo Gaddi, Niccolò di Pietro Gerini, Giovanni del Biondo, Mariotto di Nardo o Lorenzo Monaco e ben raramente quelli dei maestri vetrai Leonardo di Simone, Niccolò di Pietro Tedesco, Antonio da Pisa .
Il testo della Memmoria fornisce indicazioni assai differenti mostrando che era il maestro vetraio che sceglieva i colori secondo i soggetti, che spesso interveniva direttamente nella pittura dei vetri per non parlare poi dell'operazione estremamente delicata della fabbricazione e messa in opera dei piombi la cui importanza nell'aspetto generale di una vetrata era fondamentale
Questa lettura interdisciplinare, sperimentale e veramente innovativa del testo di Antonio da Pisa restituisce ai maestri vetrai il ruolo che ebbero nel paesaggio artistico italiano del Trecento e rivela i caratteri propri a un'arte che il padre della storia dell'arte, Giorgio Vasari, definì «difficile, artificiosa e bellissima».
1«Antoine de Pise. L'art du vitrail vers 1400», a cura di Claudine Lautier e Dany Sandron, éditions du Cths, Paris, pagg. 350, € 96,00.

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