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Einaudi-Zeri: libri, elogi e liti

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Einaudi-Zeri: libri, elogi e liti

di Enrico Castelnuovo
In edizione non venale, con una bella prefazione di Anna Ottani Cavina, Einaudi ha pubblicato le Lettere alla casa editrice di Federico Zeri. Il carteggio tra un autore e un editore si muove generalmente su alcune linee: proposte di un libro e/o di un progetto, suggerimenti e consigli su possibili traduzioni (Zeri è onnivoro, la sua curiosità spazia da Costantino il Grande ai furti di reliquie nel Medioevo, dalla biografia di Madame de Stael alla tratta degli schiavi), discussione su titoli e copertine, richiesta di libri, ringraziamenti ed eventuali giudizi sui medesimi, solleciti di pagamento. Quando poi si tratti di libri d'arte ci sarà il delicatissimo problema delle illustrazioni, la cui qualità assume per un conoscitore la stessa importanza della correttezza dei testi per un filologo. Via via l'autore conoscerà l'editore e alcuni redattori. Nasceranno delle amicizie. Quest'epistolario non fa eccezione, ma Zeri era Zeri e il suo interlocutore principale era Giulio Bollati.
L'inizio del carteggio riguarda un gran libro, Pittura e Controriforma: l'arte senza tempo di Scipione da Gaeta pubblicato a fine 1957 e che, con qualche timore, fu presentato da me, humilis famulus, in un articolo del «Bollettino Einaudi». Non era un libro longhiano, ma che Longhi ne abbia detto cose vituperevoli – come Zeri afferma essere avvenuto – io non lo credo, ricordo solo di avergli sentito dire di esser intervenuto qua e là sulla scrittura. Il libro si rifaceva piuttosto ad Antal (che Zeri aveva incontrato anni prima a Londra), ai suoi saggi, alle sue illuminanti riflessioni e al suo lungo interrogarsi sul fenomeno manierista nei Paesi Bassi e in Italia in rapporto con le tendenze profonde della società del tempo. Con la casa editrice Zeri discute delle immagini e soprattutto del titolo (Pittura e Controriforma) che l'autore teme troppo generico e l'editore troppo specialistico. Zeri chiude così la discussione: «Fate come volete voi, una sola cosa suggerirei di eliminare dal titolo, la parola "Pulzone" che evoca facili assonanze di sapore scurrile e di sostituirla con "Gaetano" o "da Gaeta"». Non doveva essere assente da questa preoccupazione il ricordo dei propri celebri scherzi telefonici, conditi da punte di dura volgarità, ma il nome temuto venne evitato e della «bellissima veste» del libro l'autore rimase molto soddisfatto.
Intanto, altri progetti venivano proposti, in particolare uno che, purtroppo, non vide mai la luce: una Storia della pittura italiana i cui volumi sarebbero stati dedicati «a un particolare momento o a una particolare scuola, costituendo... una monografia a sé». Leggerne il programma che prevedeva, dopo il primo sulla scuola riminese, volumi sulla pittura nelle Marche nel Trecento e, per il Quattrocento «le scuole di Fabriano, Camerino, Sanseverino, Carlo Crivelli e seguaci, Nicola di Maestro Antonio, la Scuola di Viterbo e la Scuola Romana», evoca immediatamente quel fuoco d'artificio che era stato la prima uscita pubblica di Zeri, quando nel 1948 presentò in «Proporzioni» sotto l'egida di Longhi, una serie di interventi esemplari in cui rivelò tra l'altro opere stupefacenti di artisti marchigiani allora ben poco noti. E a me ricorda uno Zeri giovane (sarà stato il 1952 o il 1953) che in piazza San Marco a Firenze, di ritorno da un giro tra Marche e Umbria, descriveva a un capannello di allievi di Longhi le meraviglie reperite.
Passano gli anni. Era appena iniziato il 1960 e Zeri – sempre a cavallo tra America e Italia – aveva ricevuto per Natale dalla casa editrice una memorabile antologia di fantascienza (Le Meraviglie del Possibile) curata da Sergio Solmi e da Carlo Fruttero. Ne rimane talmente colpito «da persuadere almeno 20 conoscenti ad acquistarlo». Ringraziando del dono, Zeri propone un suo nuovo libro: Due dipinti, la filologia e un nome, in cui tenta di svelare attraverso indizi e colpi di scena il nome di uno dei più bei pittori del Quattrocento, il Maestro delle Tavole Barberini. Il libro piacque molto a Bollati e a Einaudi, e venne dato in lettura anche me, del cui parere – appare dal carteggio e la cosa mi lusinga – Zeri era molto curioso. Fui preso dal modo incalzante di procedere, nuovo per un libro di storia dell'arte, e affascinato dal clima di detective story. Ricordo di aver chiuso il risvolto di copertina scrivendo «si arriva al colpo di scena risolutivo che ha luogo in una sontuosa sala del palazzo ducale di Urbino. È sciolto allora l'enigma iniziale».
Io e Gianni Romano, allora appena ventenne, lavorammo a lungo sulle bozze e sulle illustrazioni, e mettemmo gran cura (soprattutto Gianni) nel compilare l'indice dei dipinti, al quale volemmo dare un'aura che evocasse le celebri liste berensoniane delle Italian Pictures of the Renaissance. Discussi con l'autore un possibile cambiamento di titolo – l'editore l'avrebbe voluto di più facile presa sul pubblico – ma invano. E fu meglio così.
Zeri riceveva a casa, man man che uscivano, i volumi della Biblioteca di storia dell'arte: Arte e umanismo a Firenze di Chastel lo annoiò molto («un vero mattone erudito»), ma ne lodò la veste tipografica, assai migliore di quella francese. Apprezzò I principi architettonici di Wittkower e Pittura e miniatura in Lombardia di Toesca («libro importantissimo che andava ristampato»). Su questa nuova edizione di Toesca aspettavamo impazienti i suoi giudizi, che però limitarono a un deludente «mi è dispiaciuto di vedere con questa edizione svalutata la mia copia della tiratura originale oggi rarissima» e a una critica alla mancanza di aggiornamenti nelle note, cosa che deliberatamente avevamo omesso di fare, segnalandolo debitamente.
La Storia della pittura italiana non procedeva a causa dei numerosi impegni americani di Zeri. Allora lo studioso viene coinvolto in un altro progetto einaudiano, la Storia dell'arte italiana. Purtroppo i due responsabili – Giovanni Previtali per la prima parte e Federico Zeri per le altre due – non vivevano in armonia, anzi si detestavano cordialmente. La gestazione dell'opera cominciò nel 1972-73 e fu lunga e tempestosa. A quel tempo abitavo a Losanna e alla prima riunione torinese dedicata alla Storia dell'arte italiana non venni neppure invitato, cosa per la quale diedi le dimissioni da consulente, allora poco più che onorario. Le dimissioni furono prontamente respinte da Giulio Einaudi e da quel momento venni coinvolto nella vicenda. Gli incontri tra i collaboratori presieduti da Previtali erano infuocati e piuttosto litigiosi. Tuttavia, alla fine, si rivelarono produttivi perché qualche idea nuova veniva fuori. Dal punto di vista editoriale, però, Giulio Bollati era preoccupato da questa situazione fin troppo "dialettica", e non vedeva l'ora di passare il comando della nave a un nocchiero di indiscussa autorità come Zeri. La presentazione a Venezia del primo volume fu un gran successo mediatico ma il tarlo della conduzione bicefala dell'impresa era vistosamente presente. Ricordo con grande disagio una riunione romana alla quale fui invitato in modo pressante al fine di evitare spargimento di sangue, drammi e lacerazioni. E con ancor maggior disagio e amarezza ricordo la frugale cena d'addio alla gestione Previtali dell'opera in una delle osterie predilette da Einaudi sulla riva del Po. Sarebbe finita male se Paolo Fossati non mi avesse spinto a prendere aria e a calmarmi sulle rive del fiume. Al nostro ritorno i commensali erano partiti.
L'inimicizia di Zeri per Previtali continuò a lungo, tanto da attaccarlo post mortem con argomenti speciosi a proposito di una nuova edizione della Fortuna dei Primitivi in un articolo illustrato con l'immagine di un dipinto stalinista, del resto male identificato. Gli risposi ironicamente proprio su queste colonne ("Un Duca silurato dal Kgb", «Il Sole 24 Ore», 21 gennaio 1993) e fu questa la causa della mia rottura con un personaggio d'eccezione verso il quale conservo un'enorme ammirazione mista a qualche rimpianto per uno straordinario talento non sempre, negli ultimi anni, bene amministrato.
1Federico Zeri, «Lettere alla casa editrice»,
a cura di Anna Ottani Cavina, Einaudi, Torino, pagg. 132, s.i.p.

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