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E Isgrò cancella Mameli

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E Isgrò cancella Mameli

di Ada Masoero
La vicenda intellettuale di Emilio Isgrò inizia, nella prima gioventù, con la parola e con una cancellatura: le due entità che costituiranno la cifra identificativa più evidente del suo lavoro d'artista. La parola perché è un precocissimo poeta, vincitore prima dei diciott'anni di due premi di poesia. La cancellatura perché quando nel 1956, nemmeno ventenne, è aiuto-regista e aiuto-scenografo nella messa in scena dell'Aiace di Sofocle, con cui dopo duemila anni si riapre il teatro greco di Tindari, nella sua Sicilia, per un errore del tipografo il suo nome viene cancellato dalle locandine. In quello stesso 1956 Emilio Isgrò si trasferisce a Milano dove, con il viatico delle sue poesie, entra subito a far parte dell'ambiente culturale più vivo di una città allora vitalissima: i suoi amici si chiamano Vittorini e Crovi, Pasolini, Montale e Quasimodo, Arturo Schwarz, Guido Ballo, Piero Manzoni.
Poeta innanzitutto, dunque; poi responsabile delle pagine culturali del «Gazzettino» nella Venezia delle grandi Biennali e, prestissimo, anche artista, attraverso la poesia visiva, di cui è stato fra i fondatori: un intellettuale dai molti talenti e dalle infinite curiosità, e un protagonista dell'arte del dopoguerra, da sempre accostato dalla critica alle esperienze dell'arte concettuale, dalla quale però lui tende a defilarsi, accentuandone le differenze più che le tangenze.
Al centro del suo lavoro, da subito, le cancellature («La cancellatura è il mio ritratto più compiuto», dice), con cui elide sistematicamente, meticolosamente le parole di testi ritenuti quasi sacri, come l'Enciclopedia Treccani, o i nomi delle città sulle carte geografiche, improvvisamente ammutolite e percorse da fittissimi tratteggi.
O, ancora, le "cancellature" con con cui annulla le immagini, come in Jacqueline, la cui figura sparisce in un mare di grigio mentre un'icona imperiosa, la grande freccia nera che punta il nulla, si sostituisce a essa, negandola ed enfatizzandola insieme. Perché cancellare per Isgrò non è affatto annientare ma, se mai, restituire a parole e immagini logorate dall'uso la carica semantica di cui sono portatrici.
Milano, la sua città d'adozione, gli dedica ora un'importante personale curata da Marco Meneguzzo: una settantina di opere dagli anni 60 a oggi circondano tre imponenti installazioni, una delle quali, Fratelli d'Italia (oltre 27 metri), è stata concepita proprio per questo spazio, lunghissimo e magnifico. Insieme c'è Ora italiana, l'installazione creata dopo l'attentato di Bologna, che ritma la visita in modo ossessivo con il battito martellante dei suoi venti orologi da stazione, amplificato e moltiplicato in un frastuono confuso e ansiogeno, che entra in cortocircuito con l'ironia pungente di cui la gran parte delle sue opere sono intrise. «In realtà l'ironia io la esercito mio malgrado» dice lui: eppure l'ironia qui è ovunque, nei titoli, che sono parte primaria dell'opera, come nelle rare parole che risparmia, lasciandole vivere fra le innumerevoli cancellature. E poi, come non intravedere un sorriso dietro all'opera in cui compie la "cancellatura" più radicale – quella di se stesso – quando afferma perentoriamente: «Oggi, 6 febbraio 1971, dichiaro di non essere Emilio Isgrò»?
1 «Emilio Isgrò. Fratelli d'Italia», Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese,
fino al 13 giugno. Catalogo Fondazione Credito Valtellinese.

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