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La rivincita di Ribera

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In Primo Piano

La rivincita di Ribera

di Alvar González-Palacios
Non è la prima volta che accade. Gli storici dell'arte particolarmente dotati – talvolta li ho chiamati "veggenti" – sono in grado di creare gruppi di opere unitarie di un possibile autore, ignoto, al quale si dà un nomignolo. Queste serie vengono create servendosi più degli occhi che dei documenti, della fantasia che della scienza. Non entreremo qui nell'irrisolta questione se la storia dell'arte possa considerarsi una scienza: io non ne sono affatto convinto e penso piuttosto che quella sfuggente disciplina abbia molto da spartire con la psicologia, la letteratura e la sensibilità. Il corpus di un artista fabbricato in laboratorio è sempre in pericolo di morte ma se il Frankenstein che l'ha creato è bravo, questo anonimo (piuttosto questo nomignolo) diventa poi reale. Farò adesso un esempio del passato e uno di oggi (e in parte di ieri). Bernard Berenson mise insieme nell'ultimo anno dell'Ottocento un gruppo di dipinti fino ad allora attribuiti a vari pittori del tardo Quattrocento che tradivano la mano di un artista intrinseco di Sandro Botticelli. A questo insieme coerente dette un nome di artificio, che ebbe notevole successo, Amico di Sandro. Molti anni più tardi, nel 1938, Berenson stesso giunse alla conclusione che la parte sostanziale dell'Amico poteva identificarsi con gli inizi di Filippino Lippi che era stato infatti allievo del Botticelli. Questa operazione resta un fenomeno di chiaroveggenza dettato dalla profonda convinzione che siano le opere esistenti a determinare la personalità di un artista e non sempre i fatti esterni che le circondano. Il saggio di Berenson è stato pubblicato in italiano (Mondadori Electa, Milano 2005) con un intelligente scritto di Patrizia Zambrano non esente qua e là di un tono condiscendente poco equo.
Nel 1943 Roberto Longhi isolò un gruppo di dipinti eseguiti a Roma agli inizi del XVII secolo per il quale non riusciva a trovare alcuna identificazione anagrafica. Queste opere a suo modo di vedere erano da attribuire a uno straniero, forse francese o fiammingo, ed erano marcate da una forte personalità talvolta violenta, talvolta sgrammaticata, sempre stupefacente. Avvolse questo insieme attorno a un quadro ben noto della Galleria Borghese, un Giudizio di Salomone per il quale erano stati proposti più autori, nessuno dei quali convincente. Questo Maestro del Giudizio di Salomone, per dirla in due parole, ha avuto più battesimi, tutti inconsistenti finché nel 2002 Gianni Papi trovò una soluzione che lasciò allibito chiunque non l'avesse trovata prima: il Maestro del Giudizio di Salomone era il giovane Jusepe de Ribera. Ribera era nato a Valencia nel 1591 e risiedette a Roma almeno quattro anni, fra il 1612 e il 1616, prima di trasferirsi definitivamente a Napoli.
Questo problema è stato di nuovo affrontato da Papi, in un volume pubblicato un anno fa (G. Papi, Ribera a Roma, Edizioni del Soncino, Soncino, 2007) e da Nicola Spinosa or ora nell'edizione spagnola della sua monografia di Ribera (N. Spinosa, Ribera. La obra completa, Fundacion Arte Hispanico, 2008). Quali sono i fatti incontrovertibili? Non sappiamo con esattezza quando e come Ribera venne in Italia; era a Parma di certo nel 1611 e poi si avanzano varie ipotesi sulla cronologia che non possono essere accettate da tutti. Ma le ipotesi sono indispensabili per far avanzare la storia. Come è arrivato Papi a dimostrare che il Maestro del Giudizio di Salomone sia Ribera? Innanzitutto per via di occhio e di intuizione – e diamogliene il merito –. Poi ha trovato alcuni fatti che gli davano ragione.
Lo Spagnoletto, come veniva spesso chiamato, lavorò per un agente diplomatico spagnolo a Roma, Pedro Cussida (o Cosida) il quale possedette diverse sue tele, ora identificate, e per alcune famiglie di grido come i Borghese e i Giustiniani. Ai primi appartenne proprio il Giudizio di Salomone e un Mendicante che risulta già col nome giusto in un inventario del maggior collezionista del giorno, il cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V. Ai Giustiniani appartennero, fra l'altro, un Cristo fra i dottori e un San Francesco, identificati a Langres e a Potsdam ma qui ci si inoltrerebbe per le vie tortuose della filologia.
Nell'inventario dei beni del figlio di Cussida, del 1624, vengono menzionati altri dipinti, uno da poco al Prado, l'altro a Palazzo Corsini di Roma, di cui non si dice il nome dell'autore ma che sono perfettamente coerenti con le produzioni di quello che era stato prima noto come il Maestro del Giudizio di Salomone. E ancora dodici apostoli e «cinque quadri delli cinque sentimenti»: gli Apostoli sono stati identificati dal Papi come Ribera assieme al resto del gruppo del Giudizio di Salomone mentre i Sensi erano già stati attribuiti a Ribera stesso molti anni fa poiché il loro carattere, forse più avanzato, rendeva possibile quella identificazione che si è dimostrata assai più ardua per le altre tele. Tutto torna adesso.
Negli scritti di Papi ovunque si sente la presenza devastante, quasi una tempesta, del Caravaggio il quale, sia pur detto, eleva le vicende umane a un piano shakesperiano. I paragoni, le contrapposizioni, non sempre aiutano a capire le opere d'arte, soprattutto quando le distanze restano inconfutabili: Ribera è un grande artista, Caravaggio un demiurgo. E così è forse eccessiva la vis polemica del Papi: ha vinto la causa, soltanto la serenità nella valutazione dei fatti acquisiti appare opportuna. È questa la strada che ha imboccato con schiettezza Nicola Spinosa spiegando perché sia d'accordo con le scoperte di Papi dopo averle confutate per alcuni anni («solo le macchine non cambiano idea»). Ovviamente – e come poteva essere altrimenti? – non ogni attribuzione è un dato di fatto. Tutto ciò viene esaminato con ponderazione da Spinosa in un linguaggio diventato con gli anni saggio e degno di chi sa guardare il proprio passato e ammettere imprecisioni o errori di giudizio senza farsi condizionare da inutili ostinazioni. La chiarezza mentale aiuta la chiarezza di stile. Così è inequivocabile che la cronologia dei molti quadri del vecchio Maestro del Giudizio di Salomone (e ora certamente di Ribera) resta opinabile ma non bisogna dimenticare che una personalità così complessa, aggressiva, delicata, come quella di Ribera, non è sempre soggetta a essere etichettata anno dopo anno come un vino di classe. Anche i committenti contano: i rapporti dell'artista coi suoi clienti spagnoli e napoletani (quando era a Roma) o quello coi suoi clienti romani e spagnoli (quando si trasferì a Napoli) possono portare a qualche svista.
Sono molti i fatti che restano, a mio modo di vedere, ancora enigmatici nella pittura di Ribera così come in quella di ogni altro artista. Quali sono, ad esempio, i suoi rapporti con Guido Reni? Qualcosa si è detto, qui e là, senza mai andare a fondo. Uno dei primi biografi dei pittori seicenteschi, un loro contemporaneo, il medico senese Giulio Mancini, già ricordava come Guido Reni tenesse in gran conto lo Spagnoletto. Ma che ne pensava Ribera di un artista così olimpico e, se si vuole, classico come Reni? Può ad esempio Ribera aver visto il quadro del San Pietro e San Paolo oggi a Brera dipinto per la famiglia bolognese dei Sampieri attorno al 1605? Lo vide a Roma, o a Bologna quando era a Parma? Altre concomitanze sono ovvie per quanto in Reni prevalga il miele e nello spagnolo la cicuta. A Roma esisteva ai primi del secolo un modello che deve essere stato utilizzato da molti pittori, il cosiddetto Schiavo di Ripa. Forse era un personaggio vero e compare in alcuni quadri del giovane Ribera (il San Bartolomeo della Fondazione Longhi, il Cristo fra i dottori di Langres) ed è certamente lo stesso di cui esiste una scultura di Guido Reni conservata nel Museo Archeologico di Madrid. Come spiegare queste coincidenze? Altrettanto vale per il gusto dell'antico, che è sempre più complesso e più vero in pieno barocco di quanto usava dire. Anche in Ribera. L'Apollo del Belvedere, paradigma di ogni bellezza per Winckelmann, era riverito anche dal nostro sanguinoso pittore; la testa di quella statua compare, ad esempio, nel Martirio di San Bartolomeo di Palazzo Pitti e nel Tatto del Museo del Prado, un vecchio cieco che accarezza, si direbbe, l'Antichità come canone di perfezione dell'Arte.
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