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La leggerezza è il mio mestiere

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La leggerezza è il mio mestiere

di Alvar González-Palacios
La critica d'arte – dico la critica, non la storia – sta finendo di esistere in buona parte del mondo civile non esclusa l'Italia. Sembra che i recensori di libri o di mostre non abbiano più il tempo di leggere e di vedere, e perlopiù si limitino a riassunti diligenti, a volte banali, di quel che dovrebbero vedere e leggere. Questi componimenti sono identici ai comunicati stampa che gli editori forniscono all'uscita dei loro volumi e cataloghi. Bizzarramente, più sontuose sono queste pubblicazioni più inconsistenti risultano i commenti degli addetti ai lavori (questa odiosa definizione, che cerco di non utilizzare mai, è quella adatta all'occasione). Lo stesso accade coi resoconti di spettacoli musicali: il critico che se ne occupa non parla quasi mai di quello che ha visto, vale a dire non si esprime sulle qualità specifiche dello spettacolo ma ci propala una versione abbreviata della biografia di Verdi o di Beethoven appena ritagliata da qualche enciclopedia. Il linguaggio adottato da questi recensori è spesso ricercato ma altrettanto tedioso di quello favorito dagli storici dell'arte, una lingua piena di aggettivi ricercati quando si fa il verso a Longhi, dura e rugginosa quando tradotta dal tedesco di Panofsky. Tutto fuor che parlare con chiarezza. Ci sono eccezioni, è ovvio, ma così come non sono molti i giornalisti politici in grado di scrivere come Montanelli sono ancora meno i critici d'arte che non fanno rimpiangere Ugo Ojetti, Emilio Cecchi e Mario Praz. Qui, lo ripeto, sto parlando del modo di scrivere non di ciò che si scrive: non sempre sono d'accordo con Ojetti o con Montanelli e alcune prese di posizione di critici letterari come Edmund Wilson possono irritarmi. Ma una cosa è certa: resto sempre ammirato dal loro dettato. Il motivo è semplice: per parlare d'arte (così come per parlare di qualunque argomento) bisogna saper dire, tenere in considerazione il lettore e non annoiarlo.
Un uomo che non mi ha mai tediato è Fabrizio Dentice di cui la casa editrice Archinto ripropone una quarantina di articoli pubblicati cinque, dieci, venti anni fa. Dentice non è un critico d'arte in senso stretto e nemmeno uno storico delle religioni o della letteratura. È un uomo di buon senso, un honnête homme, che sa spiegare con eleganza quello che pensa e quello che sente. Ecco un esempio: «Non tutti i tempi sono capaci di produrre un libro che li rappresenti». Quanto ha ragione. Chi rappresenterà le idee degli anni Sessanta? L'immagine l'abbiamo fissa nella memoria: Che Guevara morto con gli occhi spalancati, ma i suoi scritti, le sue parole restano confusi, un grigiore che via via è diventato retorica. Ancora un altro punto di vista di Dentice: «Un matrimonio, anche il più oscuro, è sempre l'incontro tra due mondi, tra due diverse rappresentazioni delle cose e del vivere». Qui il nostro amico si riferiva alle nozze di Massimiliano d'Asburgo ma quel che dice è perfettamente valido anche per i miei nonni, non un esempio da seguire. Queste frasi così tassative e così spiritose sfiorano la profondità morale, non sempre bene intesa, di un Oscar Wilde. Le parole possono apparire contraddittorie e spiritose ma non è solo così. Ecco un lampo su Filippo Neri, l'unico santo allegro del Cinquecento: «È una farfalla che ha lasciato più tracce di un bulldozer». Dentice parla, come il lettore capisce subito, di un santo simpatico con la leggerezza di tocco che merita il buonumore. Chi sa essere leggero? Occorrono bisturi e crudeltà per amputare frasi superflue o concetti oscuri e dire quel che si deve dire con poche parole nette.
Forse il soggetto che più sta a cuore a Dentice è la pittura, o la vita dei pittori. Il ritratto di Filippo De Pisis, commosso anche se non esente di perfidia, non è un intaglio ma un cammeo che nelle sue mani diventa tridimensionale; qui sfiora il lirismo, là la caricatura. La conclusione è obbligata: De Pisis era fatto così e «godersi la vita che fugge può essere una condanna devastante». Non ho conosciuto De Pisis ma ho conosciuto assai bene Fabrizio Clerici: le osservazioni di Dentice su quello stregone del sapere e della contraddizione corrispondono a verità, uno specchio che riflette uno specchio che riflette un altro specchio: in fondo Fabrizio con la voce rauca e il gesto da coreografo che inganna le proporzioni e ci mette in mano le sue carte togliendoci le nostre. «Un virtuoso dell'ozio»: non saprei dire meglio, ma un ozio che si occupa solo di cose rarefatte, incomprensibili ai più, certamente a me, forse anche allo stesso Clerici.
Dentice è ancor più vicino agli artisti dell'epoca di Monet e di Bonnard. Monet trasforma il suo giardino come trasforma se stesso, forse diventa una pianta, una pigra ninfea adagiata sull'acqua lustrale dell'immortalità: i colori servono a farla vivere, a trasmettere il suo profumo quasi impercettibile. Bonnard va poco in giardino e resta in casa. Aveva incontrato Marthe, la donna della vita, prima di compiere i trent'anni e rimane con lei per sempre. Marthe diventa la sua amministratrice e il suo fantasma erotico, perennemente distesa in una vasca da bagno trasparente come una sirena. Bonnard la dipingeva a memoria. Non è così la sensualità? Un amplesso è più duraturo nel ricordo che nella realtà o, come scrive la nostra guida «era come se la prossimità della morte gli dilatasse ancora gli occhi sulla bellezza della natura e della vita». Nonostante queste parole che sanno di eterno nessun pittore ci seppe far amare le virtù e la sensualità borghese meglio di Bonnard, un'intimità poetica forse ovvia ma struggente.
Non bisogna mai forzare niente, come diceva Braque. Fabrizio Dentice, in questo suo mondo ovattato di un'Italia che ha ancora buone maniere, tende a una bonarietà sfumata d'ironia. Non trovo mai un moto d'ira o di condanna in quel che scrive. Forse, questo sì, di disappunto. La vita scorre, almeno in apparenza, come un fiume mansueto, tiepido. Penso che anche lui sarà sorpreso di compiere fra un mese novant'anni di perlustrazioni in questo pianeta inquieto.
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1 Fabrizio Dentice, «Persone», con una prefazione di Lea Vergine, Archinto, pagg. 264, € 18,00.

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