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Arsenale, art in translation

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Arsenale, art in translation

di Anna Detheridge
La 53ª Esposizione internazionale d'Arte potrebbe essere ricordata in futuro come la Biennale degli Artisti. Paragonata alle ipotesi di lettura degli anni passati che hanno privilegiato la visione del curatore o alternativamente la "dittatura dello spettatore", la mostra curata da Daniel Birnbaum torna a ragionare su ciò che più preoccupa gli artisti: la Forma e le forme del fare arte oggi. "Fare mondi", all'Arsenale e ai Giardini della Biennale affronta soltanto in maniera indiretta i grandi temi della nostra epoca, preferendo mettere in primo piano il problema "del come" piuttosto che del "che cosa", privilegiando dunque le modalità, la grammatica, affrontando le potenzialità espressive del l'arte attraverso le ricerche filosofiche e quelle parallele scientifiche che negli ultimi anni hanno confermato molte delle intuizioni degli artisti. Così facendo, in modo più sottile e puntuale, si arriva a riflettere su temi di fondo, su quale senso abbia fare arte oggi, sul significato profondo dei linguaggi che usiamo, su ciò che le forme e le convenzioni filtrano e ciò che alcune forme sperimentali ci permettono di comprendere di nuovo e di diverso rispetto all'universo di significati che ci sembra già di conoscere. Il tema della traduzione sia da una cultura all'altra, sia tra le discipline sottende tutta la mostra e viene evidenziata dalla conversazione tra Daniel Birnbaum e lo studioso indiano Sarat Maharaj riportata in catalogo.
L'attenzione alla forma comincia dall'allestimento, deciso e ordinato, che scandisce gli spazi immensi dell'Arsenale e quelli ancora più difficili del Padiglione delle Esposizioni in contesti separati e governabili per ambientare con il dovuto rispetto i lavori dei novanta artisti invitati. E poiché gli artisti amati dagli artisti non sono sempre gli stessi amati dai collezionisti, la mostra presenta diverse rivelazioni e ripescaggi a cominciare da Övynd Fahlström. Le sue coloratissime Mappe del mondo dei primi anni Settanta sono dei grandi fumetti sovraccarichi di osservazioni preveggenti e ironie sferzanti che descrivono aree geografiche in termini geopolitici quali «la più vasta miniera ancora non sfruttata di lavoro sottocosto» oppure «il paese dal più alto percentuale di prigionieri politici» o ancora «svalutazione in Colombia, il compenso per sette anni di aiuti Usa». Campeggia in qua e in la domanda «Boom for whom?».
Il fare è sempre un rifare, come ha affermato Nelson Goodman e la necessità di fare i conti con il modernismo, quell'apertura ottimista e razionalista sul mondo nato nei primi anni del Novecento con le sue logiche universaliste, non è ancora tramontata. Le sue declinazioni in tempi e aree diverse del mondo, nella scultura mondrianesca della olandese Falke Pisano come anche nei monocromi neominimaliste di Sherry Levine, come negli oggetti di André Caderé piazzati in maniera parassitaria nelle sale o ancora negli ambienti monocromi del brasiliano Cildo Mereiles ne sono una testimonianza.
Il modernismo si è evoluto nel secondo dopoguerra nei Paesi europeizzati del l'America latina, nel movimento neoconcreto, nelle connessioni rilevate da artisti quali Lygia Pape, con linguaggi plurisensoriali. Le ricerche sul fronte dell'arte e del l'architettura della slovena Marjetica Potrc rivelano con le meravigliose serie di disegni punteggiati da osservazioni, quanto il modernismo sia stato digerito e trasformato a cominciare dai Paesi dell'Europa dell'Est. La serie I Balcani occidentali, la lotta per una giustizia degli spazi comprende disegni e scritte che esortano, chiedono, commentano: «Un individuo è lo stato più piccolo; la via per Prishtina» o ancora: «Ma io sono un cittadino? / siamo una società?». La mega installazione una sorta di ragnatela spugnosa di Tomas Saraceno già visibile dall'entrata del Padiglione ai Giardini pare una sorta di concettualizzazione delle metropoli quali galassie analoga alla visione declinata attraverso il video di costellazioni terrestri in eterno movimento di Grazia Toderi. Macro visioni agli antipodi dei disegni/poemi minuti e intimi dell'egiziana Susan Hefuna che ricordano i separé, le grate, le mircoarchitettura di un mondo islamico femminile.
L'indagine più esplicita sulla forma, relativa alla fotografia è di Wolfgang Tillmans che nei monocromi astratti in realtà indaga gli aspetti di luminosità, di colore e di texture che si sovrappongono al "contenuto" umano e sociale delle sue immagini. L'apertura su temi quali l'interdisciplinarietà e, ancor di più, la sinestesia, quell'intercomunicabilità dei sensi per la quale un'esperienza visiva può trasferirsi all'olfatto, o all'udito e viceversa: intuizioni confermate dalla ricerca più recente nel campo delle neuroscienze, unisce lavori che sembrerebbero molto diversi. Tra questi i fragilissimi quadri-pellicola astratti di Tony Conrad, meglio conosciuto come compositore e cineasta, fatti con un pigmento bianco economico che si trasforma con il tempo e con l'esposizione alla luce, ingiallendosi impercettibilmente. Conrad, nel '65 è stato autore di Flicker, classico della cultura underground, la cui sperimentazione propone da sempre una dilatazione dei confini tra le discipline. In modi molto diversi ma a partire dalle stesse idee Joan Jonas ha creato un suo mondo di suggestioni meravigliose, tra poesia, disegno, danza e recitazione, mentre la parata di Arto Lindsay organizzata in collaborazione con la Fondazione Buziol mescola arte musica e danza riappropriandosi dello spazio pubblico.
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1 «Fare Mondi 53ª Esposizione Internazionale d'Arte», Venezia, Arsenale e Giardini, fino al 22 novembre 2009, Catalogo Marsilio.

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