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Pericoli nella dolce casa

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In Primo Piano

Pericoli nella dolce casa

di Angela Vettese
Un paesaggio interiore fatto di filo spinato, ma anche di una tazzina raddoppiata fino a inglobare la propria gemella e con un filo d'oro zecchino che ne colora il bianco latte. Mona Hatoum si racconta così, come una donna (come ogni donna) piena di dolori ma anche di desideri amorosi e domestici. Palestinese errante, nata a Beirut nel 1952, vive ora tra Londra e Berlino. Dopo essere stata invitata a Venezia per la "Biennale" del 1995 e per quella del 2005, vi ritorna per una mostra personale alla "Fondazione Querini Stampalia".
Nella rassegna appare questo suo doppio volto, il cui lato sereno si è rafforzato nel tempo e viene sottolineato con forza, nel catalogo, sia dal saggio della curatrice Chiara Bertola, sia dall'inserimento di fotografie della propria madre, di sé da piccola, della famiglia intera, di una Beirut degli anni Cinquanta. Ma anche di una Beirut del Duemila, non più integra e non più inconsapevole, senza infissi e piena di propaganda. La mostra è in gestazione da anni e ha potuto avvalersi di una produzione artigianale locale. Ogni oggetto è realizzato e collocato con un rigore maniacale. Alcune immagini destate dall'artista sono dure, ma senza cedevolezze al facile scandalo visivo.
L'opera più impressionate è un grande cubo fatto di filo spinato, una gabbia che ricorda le molte opere in cui l'artista ha evocato l'idea di prigione e di intercapedine pericolosa attraverso la costruzione di griglie, di lager, di recinti di fili elettrici. Il filo spinato compare anche sotto le vesti della rete di un piccolo letto bianco da ospedale, che evoca ogni istituzione coercitiva – ospedali, manicomi, prigioni – in cui la vita si riduce al minimo e anche quel minimo impedisce funzioni essenziali quali il riposo. Una vita in cui si sta sulle spine.
Un'altra opera di grande impatto è il gigantesco rosario islamico che dovrebbe segnare il passaggio del tempo, dei pensieri, delle preoccupazioni, tenute a bada se non proprio sedate dalla recitazione di un mantra ripetitivo.
Ancora, una lanterna in un ambiente oscurato lascia uscire da fori fatti ad arte delle macchie luminose un po' strane, che al nostro secondo sguardo si rivelano come sagome di soldati. Ci sono mappe del mondo disegnate in modo diverso, dai fogli presi dalle tasche degli aerei e ricalcati nelle intercapedini delle rotte intercontinentali, fino a globi di varia natura in cui si proiettano limiti, confini, tracce tra terra e mare destinate a essere attraversate per dovere o per scelta.
Ecco palline di vetro che contengono grumi di capelli, la parte mezza viva e mezza morta del nostro corpo, già messa in scena in passato da Mona Hatoum in una performance in cui si lasciava torturare da persone che la tiravano per una treccia. I capelli dicono così tanto di noi che molte civiltà impongono di nasconderli. Ci sono capelli anche nel ricamo della tipica kefiah palestinese, in un gioco di ambivalenze tra il combattere dei maschi e l'aspettare delle femmine, tra la vita dentro le case e la morte che si può incontrare per strada. Per questo non stupisce che dell'Interior landscape facciano parte anche sculture di vetro accattivanti che, guardando meglio, sono bombe-granate di minacciosa fragilità e bellezza fatte fare a Murano. Il titolo scelto per la mostra stabilisce una volta per tutte, peraltro, che Mona Hatoum non ci parla di un determinato paesaggio collettivo, ma del suo mondo personale.
L'ambiente multiplo della "Querini Stampalia", al contempo biblioteca, museo, luogo espositivo, si dimostra un contenitore duttile e ideale: al terzo piano stanze vuote e riempite di installazioni. Al piano nobile un museo, ricostruzione di una dimora veneziana. Tra vetrine e tappezzerie decorate, Mona Hatoum ha disseminato la parte più domestica di sé.
La mostra appare a fine corsa come un omaggio al peso di vivere, ma anche alla leggerezza con la quale impariamo a combatterlo.
La mostra sembrerebbe ispirata alla figura della madre dell'artista, a cui sicuramente è dedicato il catalogo. Prima o poi tutti perdiamo una madre, intesa come persona, ma anche come cultura d'origine o identità individuale nel suo costante spezzarsi, cambiare, accomiatarsi da sé perché si è costretti ad adattarsi, e quindi dobbiamo imparare a essere una persona nuova.
La lezione della leggerezza, qualità che Italo Calvino aveva posto tra quelle necessarie alle arti del XXI secolo, è di essere una formidabile modalità della resistenza: le donne, in particolare, da sempre affrontano i drammi propri e della famiglia mentre non cessano di comperare tazzine, di cucinare buoni piatti, di passeggiare a braccetto, di concedersi piaceri che non sono distrazioni, ma esattamente il contrario: un modo di concentrarsi sul procedere, sempre e comunque, anche quando una bomba a mano ti spappola un pezzo di casa.
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1Mona Hatoum, «Interior Landscape», Fondazione Querini Stampalia, Venezia, catalogo Charta, fino al 20 settembre.

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