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Le aspettative si fanno Macro

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In Primo Piano

Le aspettative si fanno Macro

di Ada Masoero
Si varca il cancello della fabbrica romana del primo '900 in cui si produceva la birra Peroni e, calpestato un piccolo mosaico di Enzo Cucchi, ci si imbatte nel celebre, ironico Autoritratto di Alighiero Boetti, la scultura di bronzo in scala uno a uno in cui l'artista si è raffigurato in atto di irrorarsi la testa rovente (e fumante). Anche questo è un nuovo arrivo al MACRO, il museo di arte contemporanea della città di Roma, ottenuto dall'Archivio Schifano dal neodirettore, Luca Massimo Barbero insieme ad altri doni, comodati e depositi di collezionisti e istituzioni, da Claudia Gian Ferrari (un lavoro di Massimo Bartolini) a DepArt Foundation e a UniCredit.
Alle spalle di Boetti si scorge la cesata che nasconde il cantiere dell'ampliamento progettato da Odile Decq, che visitiamo in anteprima con Barbero («Non ho fretta di inaugurare – spiega –. E mi piacerebbe farlo con il MAXXI»: a giudicare dal cantiere è probabile che accada nel 2010). Per la sede di via Reggio Emilia del MACRO è stato ideato un grande volume vetrato che si incastra con un segno architettonico potente ma (per la sua trasparenza) non prepotente tra gli edifici post-unitari, di un educato decoro medio-borghese, del quartiere Nomentano Porta Pia. Dentro, quasi galleggiante, un volume, che sarà rosso fuoco, destinato a ospitare un auditorium da duecento posti, e una lunga passerella che scavalca i due immensi spazi espositivi (liberi da ogni barriera e perciò molto duttili), che consentirà di vedere le mostre anche con un inedito sguardo strapiombante e collegherà i nuovi spazi al tetto, una gigantesca terrazza a più livelli, ombreggiata in futuro da alberi e animata da un volume centrale in vetro in cui scorrerà l'acqua: un luogo pensato per offrire un nuovo spazio di aggregazione alla città. La prova generale di queste potenzialità del MACRO si è avuta il 16 maggio scorso, nella "Notte dei Musei", quando il museo riapriva dopo un anno di chiusura, richiamando cinquemila persone. In quell'occasione, sulle pareti della hall e sulle superfici specchianti della volta vetrata e del pavimento si inseguivano le Love Letters di Arthur Duff, lampi di luce verde di un'opera ideata per il museo, come la grandiosa installazione dell'indiana Hema Upadhyay esposta al primo piano. Lavori, questi, a cui si aggiungono due opere appena eseguite, con cui Barbero (in forza qui dal 23 marzo) ha voluto colonizzare con l'arte spazi inattesi: ha così affidato il vano vetrato di uno degli ascensori all'irriverente duo bolognese di street-artisti Cuoghi-Corsello, che hanno piazzato lì i loro stralunati personaggi riunendoli in un'installazione che nel titolo, Cadaveri squisiti, rende ironicamente omaggio al surrealismo, squadernandosi come una strip davanti agli occhi di chi sale al primo piano. Ma ha anche fatto ricoprire le pareti curve di due anonimi vani d'ingresso da una trama di immagini di Francesco Simeti: a prima vista, un'innocua «toile de Jouy» del '700, in realtà un collage di immagini degli ultimi, disastrosi tornado che hanno devastato il Golfo del Messico.
Spiega Barbero: «Credo che il museo debba essere una "casa dell'arte" con luoghi e spazi pensati per il visitatore curioso. Ho ereditato dal mio predecessore un'eccellente programmazione di mostre. Ora intendo immettere nuova linfa nelle collezioni permanenti». Così, con un pragmatismo e una capacità di lavoro che certo gli derivano da Torino, la città dove è nato, per poi passare a Venezia (lì è stato presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa e associate curator della Peggy Guggenheim Collection, collaborando con grandi musei internazionali), in poche settimane ha ridipinto tutto il MACRO, riscoperto un giacimento di 250 video, da Bruce Naumann, Vito Acconci, Nam June Paik ad Alessandra Tesi, Elisabetta Benassi, Paolo Canevari, ripristinando la mediateca e la sua biblioteca; ha ritrovato ed esposto opere magnifiche della collezione permanente, dal grandioso dipinto di De Maria alle sculture di Colla e Leoncillo, fino a un ignoto Pascali, una Gravida che nella purezza delle forme fa pensare alla Madonna del Parto di Piero. Ha poi ottenuto dalla Galleria comunale d'arte moderna di Roma tutte le opere post 1960, oltre ad alcune icone della modernità come il Comizio di Turcato, con la sua selva di bandiere rosse. E ha riallestito due volte la collezione secondo il modello che gli è caro, ponendo cioè le opere a dialogare fra loro in base a chiavi di lettura inedite e suggestive, decisamente inusuali nei percorsi museali. Oltre a ottenere importanti depositi e comodati: lavori di Bill Viola, Cindy Sherman, Giulio Paolini, Rirkrit Tiravanija, Tracey Moffatt, Armin Linke, Stefano Arienti, Adrian Paci, Mocellin e Pellegrini, ma anche opere di Gastone Novelli, Bice Lazzari, César, Man Ray, Yves Klein e numerose fotografie, sia documentarie (su Colla, De Dominicis, Pascali, Warhol, Beuys, Giacometti, Rauschenberg...) che d'arte (di Lüthi, Gina Pane, Acconci, Rainer...). Due le direttrici seguite: andare in cerca delle radici della contemporaneità, con autori che siano stati modelli per l'arte di oggi, e documentare le esperienze più attuali, dai giovani romani ai progetti che uniscano più generazioni, in un'ottica «non di contrapposizione ma di continuità, come se fossero trama e ordito di un unico tessuto». Il prossimo appuntamento è per il 19 settembre, quando al MACRO Future, al Testaccio, si inaugurerà con un grande concerto la mostra «New York Minute»: sessanta giovani artisti newyorkesi portati a Roma con la DepArt Foundation.
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