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Fantarchitettura nazionale

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In Primo Piano

Fantarchitettura nazionale

di Fulvio Irace
Come sarebbe stato il centro di Milano se l'Antolini avesse realizzato la sua grandiosa visione del Foro Bonaparte in onore di Napoleone? Si sarebbe finalmente interrotto il tradizionale pragmatismo di una città sempre a disagio nel pensarsi "grande"? E se Giuseppe Pagano avesse costruito al posto della futura Fiera Campionaria la città modello "Milano verde", avremmo rimpianto il monotono impianto della città ottocentesca del Beruto o sarebbe cambiato il destino dell'area dove sta per abbattersi il ciclone dei tre contestati grattacieli di Isozaki, Libeskind e Hadid? La storia – ci hanno detto – non si fa con i "se".
Eppure, la storia di una città non è fatta solo da quel che si vede, ma anche da quell'enorme patrimonio "non detto" che costituisce la parte invisibile dell'iceberg metropolitano: la lunga catena dei sogni, delle ambizioni, dei progetti "interrotti" che nel nostro paese costituisce da più di due secoli il peccato originale dell'eterno "male" urbano.
Prendiamo Napoli, ad esempio, luogo comune dell'inefficienza del Sud, sempre sospeso tra il tragico e il miracoloso, riluttante a sposare con convinzione la modernità anche quando le condizioni culturali e strutturali ne consentirebbero un deciso decollo verso equilibri più giusti e soprattutto più rispondenti alle sue enormi potenzialità. Immaginiamo, allora, che l'ingegnere anglonapoletano, Lamont Young, avesse avuto ascolto, nel 1883, nella sua proposta di creare una Ferrovia Metropolitana che, utilizzando i più sofisticati sistemi di trazione ad aria compressa e le più avanzate procedure di scavo, avesse dotato la metropoli ottocentesca di un mezzo pulito ed efficiente per evitare quella congestione che non l'ha abbandonata mai.
O che Adolfo Aravena, solo dieci anni più tardi, avesse avuto la possibilità di realizzare la sua ferrovia aerea per collegare l'area costiera della Napoli "bassa" con i quartieri alti del Vomero, facendo invidia a Eiffel e alla sua torre parigina. In anticipo sul meno ardito ascensore di Santa Justa a Lisbona, la sua ferrovia metallica "sospesa" avrebbe offerto alla capitale del Grand Tour un'attrazione turistica capace di proiettarla dai fasti del passato agli ardimenti del Futuro. E la Palermo di Basile, la Firenze di Poggi, Roma capitale? Se si fossero dotate di quelle infrastrutture che ne hanno ritardato per un secolo l'ingresso nelle grandi città dell'Europa moderna, sarebbero oggi ancora impegnate a discutere dell'impatto dell'Alta velocità o dei jumbo-tram? Avrebbero compiuto lo sforzo decisivo per aggiornare il loro "heritage", non limitandosi a conservarlo nella vetrina delle reliquie, ma "investendolo" nel potenziamento delle risorse e nell'adeguamento a quella nuova visione del mondo che aveva consentito a Parigi, a Barcellona, a Vienna, a Berlino di trovarsi preparate all'avvento del nuovo, condizionandolo, non subendolo?
Con il numero 38, appena in edicola, la rivista «d'A», diretta da Giovanni Leoni, affronta una riflessione sul destino incompiuto del nostro paese, che, a partire dalla prima "puntata" dove Fabio Mangone ricostruisce il sogno perduto di Napoli, riserva non poche sorprese a chi, in vista delle celebrazioni per l'Unità d'Italia, abbia voglia di misurarsi con un passato che tanto ancora condiziona la problematica identità della Nazione. I grandi musei d'arte contemporanea, il ponte sullo stretto, i porti e le aree dismesse, le autostrade mai finite e le infrastrutture che non ci sono: l'elenco è infinito, ma i suoi capitoli iniziali stanno scritti nella storia nazionale, nelle chiusure del mercato professionale, nel ritrarsi di quell'imprenditoria straniera che aveva puntato sul Sud proiettandolo nell'Europa in movimento, e quindi sottraendosi alla dimensione "coloniale" di una città sempre in attesa del provvidenziale straniero.
Certo, molti dei progetti proposti da Mangone hanno le stimmate evidenti dell'Utopia; altri ancora i segni di un'infatuazione per il "grande" che oggi rigetteremmo come socialmente scorretti. La Città Verticale sul mare di Aldo Loris Rossi e Donatella Mazzoleni avrebbe fatto la fine delle famigerate Vele di Scampia o sarebbe stata il segno che Gomorra era evitabile, a patto di farsi carico dei bisogni di una società che non si può solo affidare all'estro del folklore? E la Napoli sotterranea della Serao, di Montesano o di De Luca avrebbe continuato ad accogliere il "ventre" sporco di Partenope o sarebbe stata l'affascinante insieme di grotte pensate da Aldo Rossi per l'area di Monte Echia?
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