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Se New York è l'obiettivo

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In Primo Piano

Se New York è l'obiettivo

di Laura Leonelli
Una storia che da più di cent'anni, da quando Alfred Stieglitz nel 1893 immortalò la Quinta Strada in una bufera di neve, lega indissolubilmente New York e la fotografia, come racconta la mostra «Immaginare New York. Fotografie dalla collezione del MoMA», curata da Sarah Hermanson Meister e aperta al Mart di Rovereto fino all'11 ottobre. Sotto l'ingranditore, uno splendido menage a trois, protagonisti una città, tre generazioni di fotografi, da Edward Steichen a Walker Evans, da Weegee a Irving Penn, da Diana Arbus a Lee Friedlander fino a Cindy Sherman e Thomas Struth, e un'istituzione, tra le prime al mondo ad accogliere nelle sue raccolte anche la fotografia. Fin dall'inizio, fin dall'apertura nel novembre del 1929, esattamente ottant'anni fa, quando il primo direttore del MoMA, Alfred H. Barr, ventisettenne, dichiarò che il «nuovo museo avrebbe dovuto espandersi oltre i ristretti confini della pittura e della scultura».
Essere oltre. Forse non esiste un'espressione più semplice e illuminante per riassumere ciò che i fotografi di New York, come se appartenessero a uno stato d'animo prima che a un luogo geografico, hanno sempre fatto. Andare oltre i limiti, anzitutto della gravità, per ritrarre i carpentieri che senza alcun margine di sicurezza accompagnavano l'ascensione degli edifici più alti del mondo: dal Chrysler, e tra le sue guglie a rostro d'aquila si era distesa nel 1934 una delle più dotate arrampicatrici sociali e fotografiche dell'epoca, Margaret Bourke White, all'Empire State Building, ritratto in costruzione da Lewis W. Hine, e i suoi saldatori, con quelle poche assi che li separano dal vuoto, con quella disinvoltura maschile, sprezzante del pericolo, tutta americana, sono stati veramente i primi artefici del mito newyorkese. Ma essere oltre, in questa City of Ambition, dal titolo di un'altra famosa immagine di Stieglitz, del 1910, voleva dire anche superare l'istantaneità della fotografia e inventarsi un movimento, una scia, una doppia esposizione, un gioco di trasparenze e piani sovrapposti, qualunque effetto, pur di dare spessore, sulla carta, a una città che fosse mille città insieme, e basta pensare a Barbara Morgan e alla sua Primavera a Madison Avenue, o a Ted Croner, con il suo sintetico Taxi-New York-Notte.
La notte, appunto. Oltre la luce, oltre la legge, sulla scena del delitto e nel cuore buio di un'opera che da sola è una metropoli, nei suoi vertici di celebrità e nei suoi bassifondi di violenza. Una Naked City, come Weegee, alias Arthur Fellig, volle battezzare la sua monografia e quello stile, a nudo, bruciato dal flash, così impietoso, così oltre la compostezza dell'inquadratura classica, così fecondo da nutrire l'aggressività visiva, a livido sulla pelle, di altri autori, da Larry Fink a Ron Galella, da William Klein a Diana Arbus. Lei stessa un emblema vivente di quell'andare al di là, più giù nel suo caso, di quel perlustrare il fondo sabbioso dell'abisso urbano e umano, per riemergere vittoriosa con i suoi trofei di pesca, i suoi mostri marini, le sue creature notturne e spaventose anche in pieno giorno. Anche lei, come la sua insegnante, Lisette Model, si era sdraiata sul marciapiede della vita, fino a confondersi in quel labirinto di passi e rimanervi prigioniera. E persino lei, intima all'orrore, non avrebbe saputo immaginare incubo peggiore di una New York completamente deserta, disabitata, disidratata di ogni umore, così come l'ha sorpresa lungo la Sixth Avenue, in un'ora oltre ogni orario, Thomas Struth. Il vuoto assoluto. La calma dopo la catastrofe. Un'onda gigantesca e sull'asfalto non è rimasto che un guscio di conchiglia.
1 «Immaginare New York. Fotografie dalla collezione
del MoMA», Mart, Rovereto, fino all'11 ottobre.

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