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Quanto valgono i figli dell'art business

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Quanto valgono i figli dell'art business

A pochi mesi dalle celebrazioni del 10° anno di attività, la Tate Modern ha inaugurato la mostra «Pop Life. Art in a Material World» in collaborazione con due supercuratori del sistema/mercato dell'arte: Jack Bankowsky, direttore di «Artforum», e Alison M. Gingeras, curatrice della collezione di François Pinault. La mostra, audace nei contenuti – finita già sui giornali per il sequestro dell'opera di Richard Prince «Spiritual America» (1983) – ha sdoganato una carrellata di opere dei baby boomers che recuperano lo slogan warholiano «good business is the best art» e lo reinterpretano secondo i codici della comunicazione anni '90: in scena il tramonto di tabù sessuali e culturali, l'esaltazione di consumismi e feticismi poco artistici. Temi vincenti in un sistema dell'arte che ha trasformato la galleria in factory e l'artista in superstar facendo propri i principi capitalistici nei ruggenti anni '80. Gli interpreti di Pop Life seducono il mercato e si insinuano nei suoi meccanismi per criticarlo dall'interno, fino a farlo rifiorire e diventarne protagonisti. Martin Kippenberger (1953-1997) lo ha inondato di opere: da stampe a dipinti spesso eseguiti da altri, di cui si vede alla Tate una selezione tratta da «Candidature à une rétrospective», la sua personale al Centre de Pompidou del 1993, dove ironizzava sulla sua reputazione d'artista bohémien, tra genio e sregolatezza. Superstar negli anni '80, dimenticato negli '90, riscoperto a Kassel e Münster nel 1997, anno della morte, celebrato infine dopo la retrospettiva al MoMA di New York la scorsa primavera, l'artista tedesco oggi quota da 500 per i poster fino a 4-5 milioni per dipinti e installazioni.
Più strategico Maurizio Cattelan, che in linea con il trend mortuario degli ultimi lavori espone un cavallo tassidermizzato, accasciato su un lato, il cartello INRI conficcato nel ventre. L'artista gioca la sua partita con il mercato con poche e astute mosse, orientando le produzioni verso collezioni e mostre di rilievo internazionale. Acclamato nei passaggi d'asta, oggi le sue opere partono da 200mila $.
Giocano in casa gli Young British Artists – lanciati alla Royal Academy of Arts nel 1997 con la mostra «Sensation» dalla collezione Charles Saatchi –, con Tracey Emin e Sarah Lucas che portano l'esperienza de «The Shop». Nel negozio aperto nel 1993 al 103 di Bethnal Green Rd, a nord di Brick Lane, le due artiste squattrinate hanno venduto per sei mesi t-shirt personalizzate con frasi border line e memorabilia di ogni genere da 50 pence a 200 £, i cui prezzi oggi sono agganciati al solido mercato delle rivendite delle opere esposte in galleria.
Di fronte, l'opera «Pop» (1993) di Gavin Turk – le cui sculture quotano da 3-100mila £ e le tele da 30-45mila –, scultura a grandezza umana protetta da una teca di Sid Vicious con i tratti dell'artista. Turk si aggancia alla celebrità del leader dei Sex Pistols e all'intoccabilità del suo corpo per conquistare in modo subliminale le attenzioni del mercato. Chiude la mostra, l'intervento di business art di Takashi Murakami, tra vetrine di scarpe limited edition nate dalla collaborazione con il marchio Louis Vuitton – nei negozi a 390 – e le opere d'arte realizzate con la partecipazione di superstar della cultura pop, tra cui il producer Pharrell Williams per la scultura «The Simple Things» (2009), venduta lo scorso giugno ad ArtBasel per 2 milioni di $. Dalla fondazione di Hiropon Factory nel 1989 alla prima mostra a Parigi nel 1995, fino alla conquista dell'America, Murakami ha agito com una precisa strategia di marketing e dal 2001 è a capo dell'impero internazionale Kaikai Kiki, una factory warholiana che ha abbandonato lo spirito indie per la cultura blockbuster.
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