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I biscuits dell'Ambasciatore

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In Primo Piano

I biscuits dell'Ambasciatore

di Alvar González-Palacios
Le belle case del Secondo Impero e della Terza Repubblica sono probabilmente le più fastose di Parigi. Mi correggo, il fasto non implica sempre la bellezza anche se insieme a sua sorella opulenza è parte essenziale nei ricevimenti grandiosi del tardo Ottocento, ai tempi di Napoleone il piccolo e dei suoi successori, snob e repubblicani. Belle donne, costumi sfarzosi, gioielli accecanti, molto champagne e ottimi cibi sono la ricetta infallibile per trionfare nel gratin. Tutto il resto – dai quadri di autori noti, ai mobili Boulle, alle consoles dorate, alle boiseries rococò – sono fondali ai quali non è necessario guardare troppo attentamente. Sono i ricchi ad avere avuto i mezzi per rifare il Settecento, ritoccando, grattando e aggiungendo, ridipingendo e ridorando, migliorando e arricchendo come fece l'Imperatrice Eugenia con molti arredi appartenuti veramente a Maria Antonietta: fondò una religione.
Qui intendiamo parlare del palazzo dell'Ambasciata d'Italia a Parigi ubicato nel quartiere più elegante della città. La storia strettamente francese dell'hôtel La Rochefoucauld Doudeauville occupa due secoli, dagli anni Trenta del Settecento al 1937. Il palazzo si trova nella rue de Varenne, nel mezzo del Faubourg (Saint-Germain). Ai primi tempi risale l'impostazione generale dell'edificio e alcune sue decorazioni ma molto è stato completato o rifatto di sana pianta dai due o tre membri della famiglia La Rochefoucauld che ebbero il titolo di duca di Doudeauville: intrinseci di Carlo X incarnarono, prima e dopo la Restaurazione, il lato più reazionario dell'aristocrazia francese, come si rammentava ancora ai tempi di Proust. Uno di loro, il celebre Sosthène (ma ce ne furono tre di quel nome) guardava il mondo dall'alto di una nuvola dorata; pare che riuscisse a scrivere soltanto je me porte bien in un telegramma ai servitori che voleva essere cordiale. Ecco uno dei duchi (forse Armand, l'ultimo proprietario, nato nel 1870) in un bel ritratto di Jean-Léon Gérôme a pagina 68 del volume sull'ambasciata, accanto al grande scalone di marmo che invade l'ingresso dell'edificio con la prepotenza architettonica adoperata in quello stesso momento da Charles Garnier nell'Opéra di Parigi. Alla fine del Secondo Impero l'alta società francese era già più vicina alla Belle Epoque che al Grand Siècle di Luigi XIV. Non è ancora del tutto stabilito quel che i Doudeauville fecero subire all'edificio più antico. Di una cosa dobbiamo essere loro grati: in uno degli ambienti del Palazzo vennero trasferite con opportuna violenza le decorazioni del castello di Bercy distrutto nel 1861. In questo volume si sono identificati quattro sovrapporta di Nicolas Bertin, che provengono da quel sito, rare espressioni del gusto della Reggenza e certamente i migliori quadri francesi conservati nell'ambasciata.
Il fulcro di questo libro riguarda le modifiche attuate dall'Italia fra il 1937 e il 1939 quando la Repubblica francese trovò un accordo col Regno per assicurare la propria permanenza nel Palazzo Farnese di Roma offrendo in cambio l' hôtel di cui parliamo. A essere esatti la Francia concesse anche il suo appoggio in alcune spinose questioni politiche come quelle riguardanti l'Etiopia perché altrimenti scambiare la più bella casa del mondo, Palazzo Farnese, con quell'edificio apparirebbe ingenuo. L'ambasciatore di allora, Vittorio Cerruti, si mise immediatamente a lavoro utilizzando Adolfo Loewi, noto antiquario e conoscitore d'arte. In un paio d'anni si riuscì a far resuscitare l'abbandonata residenza dei Doudeauville –in cui restavano, è vero, stanze rococò e neorococò, arazzi impalliditi , molte specchiere e intere pareti rivestite di marmi– in una sede degna della sua funzione. Grazie alle ricerche di Erminia Gentile Ortona, di Maria Teresa Caracciolo e di Mario Tavella si sono identificate alcune delle opere importanti comprate negli anni Trenta. Forse l'acquisto più significativo fu il gruppo di tele di Francesco Antonio Guardi provenienti da Palazzo Mocenigo a Venezia. Quell'insieme fa bene intendere il ruolo del meno famoso dei due fratelli Guardi e della sua particolare visione, febbricitante e nervosa, del movimento e della luce, simile e nel contempo assai diversa da quella nelle vedute di Francesco. Meno importanti ma altrettanto graziose le decorazioni di G.B. Bison e i paesaggi di Vittorio Amedeo Cignaroli di cui si è trovata la provenienza: essi furono comprati da Pietro Accorsi e Adolfo Loewi a Palazzo Ricardi di Netro a Torino. Certamente dal Piemonte provengono anche vari pannelli cinesi con figure femminili: appartenevano già a Loewi nel 1935, come ora sappiamo attraverso le note fornite dalla figlia dell'antiquario. Altre decorazioni del genere, in parte eseguite in Cina in parte in Europa, si trovano anche nel Castello di Govone e in quello di Masino. Altre ne aveva Benedetto XIV a Castelgandolfo alla metà del Settecento, nelle sale cinesi oggi purtroppo smontate (si veda il libro di M.A. De Angelis, Il Palazzo Apostolico di Castelgandolfo, 2008 )
La stanza più nota dell'Ambasciata d'Italia è però anteriore a tutti quei lavori di ridecorazione. Si tratta di un teatrino una volta nel Palazzo Butera di Palermo portato a Parigi ai primi del Novecento dal Duca di Camastra che lo montò nella propria residenza: ignoriamo quando giunse nell'attuale Palazzo ma sappiamo certamente che venne riadattato da Loewi. I lavori intrapresi dall'antiquario-arredatore furono molto complessi. Loewi si servì di uno stuolo di artigiani veneziani e di un manipolo di francesi. Il risultato di questi lavori è sorprendente ma talvolta si resta incerti fra verità e finzione. Il gusto resta discutibile. Nessun opera di riammodernamento esula dal proprio tempo, così come nessun falso può sfuggire alle regole estetiche dell'epoca in cui venne fatto. Se si esaminano le stanze dell'Ambasciata italiana la loro dipendenza dalla visione antiquaria degli anni Trenta è incontestabile. Questo senso decorativo ha da spartire più con i fondali "settecenteschi" immaginati da Lubitsch e da altri direttori della Hollywood degli anni Trenta e Quaranta che col Settecento genuino. Valga come esempio la Maria Antonietta di Norma Shearer. Una fonte di ispirazione accademica per l'Italia di allora va indicata nella mostra sul Settecento che ebbe luogo a Venezia nel 1932. Ugo Ojetti scrisse nella prefazione a quel volume due frasi che è bene ricordare. La prima sul Settecento, «secolo frivolo, femmineo e parigino, ultima spuma della tempesta seicentesca, decadenza e morte della nostra egemonia sull'arte europea». L'altra è: «L'arte è prima un fatto estetico e subito dopo un documento». Documenti e capricci si vedono infatti in queste stanze oggi studiate con grande serietà dagli autori e da altri specialisti di prim'ordine come Pierre Rosenberg, Arnauld Brejon de Lavergnée e J.M. Pérouse de Montclos.
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1«L'Ambasciata d'Italia a Parigi. Hôtel de La Rochefoucauld-Doudeauville», a cura di E. Gentile Ortona, M. T. Caracciolo, M. Tavella, Skira, Milano, pagg. 240, € 80,00.

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