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Nuovi musei in tempi di sboom

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Nuovi musei in tempi di sboom

di Angela Vettese
Le regole non funzionano più. Una sintomatologia variegata sembra dire che il sistema dell'arte, con i suoi attori e i suoi luoghi, sta mostrando così tante crepe da sembrare vicino a un collasso della sua formula attuale.
Prendiamo l'architettura. Oggi il museo Maxxi di Roma ha le porte aperte in anteprima, promettendo di diventare la più forte struttura italiana per l'arte contemporanea. Per esplicita volontà dell'archistar che l'ha progettato, Zaha Hadid, deve essere mostrato essenzialmente vuoto. L'installazione coreografica di Sasha Waltz, creata apposta per l'evento, segue le linee strutturali dell'edificio ed è una performance di danza e musica. Come a dire che la vera scultura, l'oggetto più importante del museo è il museo stesso e che il contenuto di quadri, sculture e installazioni – fanno già parte della collezione opere di William Kentridge, Alighiero Boetti, Anish Kapoor, Mario Merz, Gehrard Richter, Olivo Barbieri, Guido Guidi tra gli altri – è quasi un optional. Le sue pareti curve e inclinate, i suoi spazi fluidi e per larghe metrature impossibili da utilizzare, la sua enormità complessiva, renderanno una sfida micidiale metterci qualunque cosa anche per il direttore più esperto.
I direttori, appunto, altro capitolo. Sceglierli è diventato un mal di pancia. «Il Sole 24 Ore» ha seguito le vicende di Rivoli, che dopo le dimissioni di Ida Granelli e la gaffe politica di avere indicato per la sua successione non una rosa di nomi, ma una sola candidatura, caduta poi sotto una sassaiola di critiche. Ora ecco il rimedio, comunicato giovedì dal neopresidente Giovanni Minoli, sotto la forma di un meccanismo cervellotico anche se, probabilmente, adatto ad assicurare una buona riuscita sul fronte del prestigio culturale. I direttori delle maggiori istituzioni attive a Torino, cioè Carolyn Christov-Bakargiev, protempore del Castello, Francesco Bonami per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Danilo Eccher della GAM, Beatrice Merz della Fondazione Merz, insieme a cinque direttori di strutture internazionali (Neal Benezra, Manuel Borja-Villel, Charles Esche, Udo Kittelmann, Nicholas Serota) insieme a Rudi Fuchs e Ida Granelli, già direttori a Rivoli, hanno indicato ciascuno alcuni candidati che presenteranno entro breve i loro progetti di gestione. Entro dicembre è attesa la nomina sospirata. Che fatica!
Questi due casi non sono i soliti esempi di italianità maldestra. Al contrario: il museo-spettacolo di se stesso è nato anni fa e noi arriviamo buoni ultimi. I meccanismi per decidere chi deve dirigere una struttura importante sono vischiosi quasi ovunque. Si tratta di segni del fatto che i soggetti elettivi di questo circo, gli artisti e il loro lavoro, sono in effetti diventati marginali. Per fortuna, almeno i collezionisti privati comperano in tempo: secondo un'acuta indagine di Carol Becker, preside della Columbia University per il settore Arti, i musei non comperano che cose già mitizzate. Nei dubbi amletici da cui sono percorsi soprattutto se prestigiosi, non sanno svolgere alcuna azione di ricerca: «Quando un lavoro è nuovo e veramente eccitante, è escluso dall'establishment fino a quando non passa attraverso un processo di validazione. Ma a quel punto il suo momento di rilevanza rispetto alla contemporaneità è passato» (Thinking in Place, Paradigm, Boulder e Londra, 2009, pagg. 174). Il ruolo assunto dai curatori indipendenti non aiuta: protagonisti negli anni Novanta di una fioritura di idee per nuovi modi di fare mostre, complice un culto dei giovani artisti ora decisamente in crisi, oggi sembrano spesso impegnati in competizioni per il posto-quasi-fisso come quello che offre Rivoli.
Forse ciò accade anche perché l'economia che ne ha sponsorizzato le ambizioni, nel periodo del diffuso mostrismo, ha subito Lo sboom che dà il titolo a un fortunato saggio di Adriana Polveroni (Silvana Editoriale, Milano 2009, pagg. 124, € 14,00). I curatori affetti da bulimia geografica, quelli che non temono il fuso orario e viaggiano come piccioni, stanno forse per lasciarci le penne. Alcune gallerie abbassano i prezzi e molte sono tra quelle, come White Cube a Londra, che ci avevano abituato a una politica di prezzi-spettacolo. Molti continuano a partecipare alle fiere non per vendere, ma per dimostrare «che si esiste e che si resiste».
Forse è troppo facile additare «l'insensatezza del mondo dell'arte» con «i guasti, gli equivoci, il narcisismo arrogante» che lo hanno caratterizzato fino a quando il denaro ha girato svelto. L'arte contemporanea non è mai stata una mammola e ha sempre cercato il glamour, anche quando il bel mondo includeva Marsilio Ficino e Lorenzo (non a caso detto) il Magnifico. Però il meccanismo odierno sta mostrando tali anomalie e tali incertezze sull'obiettivo da raggiungere, che si direbbe a un punto di non ritorno.
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