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Mio Duca, che stoffa!

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Mio Duca, che stoffa!

di Ada Masoero
Descrivendo in due righe Milano, Teofilo Folengo, autore di scanzonati versi "macheronici", scriveva che la città «risuona tic toc a ogni cantone/mentre mettono i ferri alle stringhe e fan buchi con gli aghi» (ma l'originale è più saporito: «Milanus tich toch resonat cantone sub omni /dum ferrant stringhas, faciuntque foramina gucchis»): era l'inizio del '500 e già allora un colto forestiero – mantovano di nascita, poi randagio – quale lui era, identificava nella moda il tratto distintivo della città. I "ferri alle stringhe" erano le "magete", minuscoli anelli metallici di rinforzo per le asole in cui passavano i lacci delle vesti, presto diventati ricercatissimi ornamenti per le sete: gli antenati delle nostre paillettes.
L'industria del lusso, e specialmente la produzione e il commercio dei più sfarzosi (e costosi) tessuti serici che si producessero in Europa, al tempo di Folengo contava ormai a Milano su 70 anni di tradizione: era stato l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria, a chiamare in città nel 1442 rinomati tessitori da Firenze e Venezia, che con Genova detenevano il primato di quella produzione. Da allora, grazie soprattutto agli Sforza, suoi successori, che volevano in ogni modo legittimarsi agli occhi delle potenze straniere (il primo di loro, Francesco, era un ruvido condottiero, forte solo del matrimonio con Bianca Maria Visconti), gli investimenti sulle manifatture auro-seriche si moltiplicarono in modo esponenziale, tanto che il figlio di Francesco, Galeazzo Maria, pur indebitato fino al collo, quando sposò Bona di Savoia inaugurò una stagione di sfarzo senza precedenti, costringendo lo «spenditore ducale» Gottardo Panigarola (il committente dei celebri Uomini d'arme di Bramante) a tenere a bada torme di artigiani inferociti, che avevano confezionato vesti a decine per lui, la famiglia, il seguito, e per l'amante Lucia Marliani, al cui abbigliamento provvedeva con tanta larghezza da indurre il pettegolo ambasciatore mantovano a descriverla vestita «como una reina».
Su questo sfondo sfavillante di sete e velluti costosissimi, intessuti con fili rivestiti di impalpabili lamine d'argento dorato e, più ancora, su questo sfondo di ambizioni sfrenate e di ostentazioni impari alle finanze del ducato eppure indispensabili per garantirne l'immagine in Italia e in Europa, si dipana la mostra irripetibile del museo Poldi Pezzoli, frutto degli studi e del progetto di Chiara Buss, responsabile del dipartimento Arti applicate di Isal-Istituto storia dell'arte lombarda, che l'ha curata con Annalisa Zanni, direttore del museo, potendo contare sul contributo di Vitale Barberis Canonico, Fondazione Cariplo e Ubi-Banca Regionale Europea. Una mostra davvero unica per i prestiti ottenuti dal museo e per la robustezza delle ricerche, non meno che per l'allestimento, di Luca Rolla, spettacolare ma rispettoso di manufatti tanto fragili, e per l'illuminazione radente, di Ferrara-Palladino, che per la prima volta sa restituire a questi serici velluti a più altezze, rilucenti d'oro, quella tridimensionalità da oreficeria a sbalzo, frutto di un'ardua lavorazione, che sommata al costo dei filati e delle tinture li rendeva accessibili ai soli regnanti. Perché questi che fino a pochi anni fa erano liquidati come esempi di "arti minori", erano invece allora ben più costosi di dipinti e sculture. Il che induce a riflettere sulle modificazioni del gusto (e degli status symbol) intervenute nei secoli.
La mostra ci accompagna dunque attraverso le botteghe delle arti suntuarie mettendone in evidenza l'organizzazione imprenditoriale e ponendo a confronto i tessuti con ritratti del tempo, i cui protagonisti sono avvolti da sete e velluti del tutto identici, e con codici miniati, tarocchi sontuosi, oreficerie, che condividono gli identici motivi decorativi, poiché i disegni viaggiavano per le botteghe, unite fra loro dalla stessa «poetica del lusso» (Marco Collareta).
Gli studi che l'hanno preceduta hanno condotto da un lato a inediti risultati sulle tinture (specie sul cremisi, la più costosa), dall'altro all'individuazione di due imprese visconteo-sforzesche sinora ignorate: la mela cotogna, insegna di Francesco Sforza allusiva a Cotignola, la contea paterna, e la sempreviva, dal trasparente significato, anch'essa adottata da Francesco e perpetuata dai successori: autentici "loghi" che, insieme ad altri già noti, ricorrono in questi tessuti come strumenti di comunicazione politica. Lo prova, più d'ogni altro, il Ritratto di Ludovico il Moro, mai più visto dal 1939 (Pietro Marani lo assegna qui all'ambito di Bernardino de' Conti), la cui sopravveste è intessuta di innumerevoli imprese familiari e personali incorniciate dai nodi infiniti vinciani. Ma ogni pezzo ha storie affascinanti da raccontare. Come i paliotti d'altare: da quello, preziosissimo (del Poldi Pezzoli), detto delle colombine per il ricorrere del l'antica impresa ideata nel 1360 da Petrarca per Giangaleazzo Visconti, a quello del Museo Baroffio, un vero cimento tecnico, qui assegnato per la prima volta al 1494: sarebbe infatti stato donato al Sacro Monte di Varese non in occasione delle nozze di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este, ma per l'investitura imperiale del duca, come è provato dalla corona che sormonta gli stemmi degli sposi, posti fra le bacche del gelso – il "morone"–, a cui egli amava riconnettere il suo soprannome, in realtà legato al colorito scuro ("sozzo", scrisse la madre, stupendosene) della pelle. O come i ricami sontuosi, dal paliotto del Poldi Pezzoli con l'Imago Pietatis al baldacchino di Lodi, del vescovo Pallavicini. Mentre il caftano del principe di Valachia, confezionato con velluti milanesi, prova che l'accorta politica dei signori di Milano aveva avuto successo e che l'industria milanese della moda esportava sin d'allora nei paesi più lontani.
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1 «Seta Oro Cremisi. Segreti e tecnologia alla corte dei Visconti e degli Sforza», Milano,
Museo Poldi Pezzoli, fino al 21 febbraio. Catalogo Silvana Editoriale.

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