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Parigi, culla della fotografia

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Parigi, culla della fotografia

di Laura Leonelli
È sua, non c'è niente da fare. La fotografia appartiene a Parigi e ai suoi abitanti. E non perché la Francia nel 1839 sia stata così sfacciata da regalare all'umanità un'invenzione cui si stava arrivando anche in altre parti del mondo. Né per la vanità di aver trasformato il procedimento di Nièpce e Daguerre in un prodotto nazionale da proteggere come il Camembert, il Beaujolais Nouveau, Edith Piaf e la Ville Lumiere. No, la fotografia appartiene a Parigi perché Parigi è stata di tutti, si è data e ha accolto in un periodo, gli anni 20 e 40, quando altri paesi d'Europa vivevano chiusi nell'autarchia, anni osceni e fotogenici solo per chi non tollerava la responsabilità del dialogo.
Parigi è veramente un'altra storia e allora con invidia e profondo rispetto per chi ha saputo difendere ogni libertà, anche di sguardo, godiamoci la bellezza di una delle mostre più importanti del prossimo anno, «Parigi capitale della fotografia 1920- 1940», aperta, dopo l'esordio al Jeu de Paume, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia di Firenze, dal 14 gennaio all'11 aprile. A splendere sono cento immagini vintage, di oltre quaranta autori, che insieme a riviste e libri d'epoca appartengono alla raccolta di Christian Bouqueret, collezionista, studioso, critico, gallerista, mercante. È lui l'uomo che all'inizio degli anni 70, in un decennio in cui si rincorrevano altri miti fotografici, dal reportage d'assalto al paesaggio, è tornato indietro nel tempo e ha riportato alla luce un tesoro di cui si conoscevano e si promuovevano solo pochi nomi, Henri Cartier Bresson, Brassai e Florence Henri. Degli altri, straordinari, si era persa traccia.
Questo fino a quando Bouqueret, allora studioso di letteratura tedesca, trovò da un antiquario di Berlino una foto firmata L. Feininger che ritraeva un gruppo di amici negli anni 20. Qualche ricerca, risalendo prima a Lyonel Feininger, docente al Bauhaus, poi a suo figlio Lux, allievo della stessa scuola, e infine a sua sorella Lore ed era lei l'autrice dell'immagine. Nel passaggio delle generazioni Bouqueret scopre – e allora era quasi terreno vergine – l'importanza della fotografia nella scuola tedesca, la sua novità, la sua «Nouvelle Vision» come verrà ribattezzata negli stessi anni nella capitale francese, e ne rimane così affascinato da abbandonare gli studi letterari.
Un'altra ricerca, un altro linguaggio, e tornando a casa, da Berlino a Parigi, Christian ripercorre la strada di quanti, in esilio o in fuga dalla stessa Germania, dalla Russia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Lituania, si erano rifugiati in Francia e lì, in un clima di tolleranza politica e religiosa, di apertura internazionale, di curiosità reciproca, avevano ripreso fiato, vita, lavoro. E soprattutto contatti. A rendere meravigliosa, ancora oggi, questa lunga stagione, al di là della qualità delle immagini, sono gli scambi, gli incroci di destini, le amicizie, le collaborazioni. Non una sola scuola, ma una pluralità di voci. Il nuovo moderno nasce corale.
La "visione" è nuova non solo perché in aperta rottura con la fotografia pittorialista e le sue morbidezze agresti, non solo perché alla luce naturale preferisce quella artificiale, più drammatica; e non solo perché accoglie le suggestioni dell'era industriale, dalle fabbriche agli oggetti in serie; ma è nuova perché dialoga con il mondo dell'arte e della letteratura. Si mescola. Si moltiplica. I libri, così importanti nella raccolta di Bouqueret, lo confermano.
Nel 1927 esce a Parigi Métal di Germaine Krull, strepitosa fotografa tedesca che inventa la bellezza delle nuove strutture in ferro e reinventa, a ogni stagione dell'esistenza, anche se stessa, trasferendosi in Congo durante la guerra, poi in Algeria e da lì a Bangkok, dove nel 1947 diventerà la proprietaria del mitico albergo Oriental. Qualcosa di unico, irripetibile, "solo qui", e questa unicità Germaine l'aveva scoperta a Parigi, esplorando la città e guardando le immagini dei suoi colleghi.
Ancora libri: Paris di Moi Ver, lituano, con un'introduzione di Fernand Legér, Paris de Jour di Roger Schall con un testo di Jean Cocteau, e poi Paris vu par Kertész, il grande fotografo ungherese, e ancora Moj Parij, di Ilia Ehrenbourg, scrittore ucraino, e infine, capolavoro assoluto, Paris de nuit, di Brassai, ungherese e coinquilino di Raymond Queneau. «Sono diventato fotografo – raccontava Guyla Halasz, in arte Brassai, ovvero nato a Brasso – perché volevo tradurre in immagine l'incanto dei notturni parigini». Un'altra realtà, verso cui si dirigono negli stessi anni, partendo dal Surrealismo, autori come Man Ray, americano, Maurice Tabard, Raoul Ubac, tedesco, Claude Cahun, Erwin Blumenfeld, altro tedesco, Laure Albin Guillot e Roger Parry. Oggetti, corpi, corpi che diventano oggetti, smontabili, mani, piedi, e accanto, per mantenere viva la conversazione, appaiono i ritratti neoclassici di Hoyningen-Huene, russo, e di Emmanuel Sougez. Si poteva essere rivoluzionari e compostissimi. Si poteva essere diversi a Parigi. La prova che se lo sguardo è libero, se le voci sono tante, si vive e si fotografa meglio.
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1«Parigi capitale della fotografia 1920-1940», Firenze, Museo Alinari; dal 14 gennaio all'11 aprile. Catalogo Alinari.

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