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Henry, che humor

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Henry, che humor

di Ada Masoero
Non è certo nella qualità della pittura che va cercato il valore dell'opera di Maurice Henry. Come per molti altri surrealisti, da Magritte a Delvaux allo stesso de Chirico metafisico, che di tutti loro fu il modello, ciò che conta nella sua arte è la forza dell'invenzione: un'invenzione perturbante, che scaturisce dalla scintilla innescata dall'accostamento di realtà apparentemente inconciliabili («bello come l'incontro fortuito su un tavolo anatomico di una macchina per cucire e di un ombrello», secondo i versi di Lautréamont scelti dai surrealisti come bussola della loro creatività) e dall'ibridazione di immagini fra loro estranee, in cui si intrecciano mondo vegetale, animale e umano, dando vita a esseri metamorfici e inquietanti, secondo i princìpi dell'automatismo psichico. I surrealisti predicavano del resto l'abolizione degli steccati tra veglia e sogno, tra ragione cartesiana (che rifiutavano) e pulsioni del profondo (cui volevano dar voce), convinti che all'artista, poeta o pittore che fosse, toccasse il compito di dischiudere al resto dell'umanità i regni altrimenti insondabili del profondo. Ai surrealisti Maurice Henry si unì tardi, nel 1932. Ma già prima, quando aveva aderito al gruppo del «Grand Jeu», collaborando alla rivista con poesie e disegni, si era fatto guidare da princìpi di segno surrealista, tra rivolta contro i princìpi della mentalità borghese, culto dell'inconscio e del l'automatismo («noi non vogliamo scrivere; ci lasciamo scrivere») e devozione allo "humour" nella sua accezione, surrealista anch'essa, di sovversione contro l'ordine costituito.
E ai princìpi del surrealismo, lui che pure era tanto indipendente, sarebbe rimasto fedele anche dopo la rottura con André Breton, dispotico padre-padrone del movimento. Poeta e sceneggiatore, disegnatore satirico e umoristico, critico cinematografico e cultore dell'arte del "bien vivre", abituato a muoversi da protagonista prima nella Parigi scintillante di cultura e d'intelligenza d'anteguerra («si giocava con la vita: Buñuel, Prévert, Magritte, Duchamp, Man Ray partecipavano alle serate parigine, la vita era leggera e divertente» rammenterà la seconda moglie, l'italiana Elda Henry, che dal 1968 lo condurrà stabilmente a Milano) e poi nella Milano vitalissima degli anni 60 e 70, animata dagli artisti e poeti che gravitavano intorno alle gallerie di Arturo Schwarz, di Giorgio Marconi, dell'Annunciata e dell'editore Gabriele Mazzotta, Maurice Henry, che morì a Milano nel 1984, rivive nella mostra curata da Dominique Stella e Guido Peruz, collezionista e amico (è esposto un disegno a lui dedicato, con un pianista nudo che "suona" una donna ugualmente nuda). E benché siano i dipinti ad accogliere i visitatori, a sedurci sono soprattutto le altre opere: i lavori su carta più precoci, fitti di omaggi a de Chirico, Max Ernst, Magritte (i suoi maestri), come la serie dell'Humeur du jour, del 1975, cromaticamente così ricca, fitta questa di omaggi alla sensualità della moglie, non meno che i laconici disegni umoristici, taglienti come rasoi sotto l'apparente levità, in cui spesso bersaglia la boria degli altri artisti; e i sorprendenti "oggetti-scultura", dalla pistola bendata ai rilievi di carta stropicciata, in cui le fattezze dei personaggi si deformano in fisionomie improbabili, cariche di acre ironia.
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1«Maurice Henry. Une poétique de l'humour», Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, fino al 14 marzo.
www.creval.it

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