ArtEconomy24

Gupta, l'indiano che luccica

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

Gupta, l'indiano che luccica

di Pia Capelli
Si è fatto notare con un forte Curry, la batteria di pentole e utensili installata alla Biennale di Venezia del 2005. È nato nel 1964 a Khagaul, una cittadina ferroviaria nel Nordest dell'India. Ha sposato l'artista londinese Bharti Kher e l'ha convinta a trasferirsi con lui a New Delhi. Le sue sculture sono fatte di tiffin box, i contenitori metallici per il cibo che i lavoratori indiani usano per il pranzo. Subodh Gupta incarna l'anima indiana dell'arte contemporanea: è il più famoso – e certamente il più quotato – artista asiatico a non aver mai lasciato il subcontinente per l'Occidente, ed è anche il pupillo di collezionisti glamour come François Pinault, che ha sistemato in pieno Canal Grande un suo enorme teschio in acciaio inossidabile per inaugurare Palazzo Grassi.
L'Italia sembra una presenza costante nella carriera fulminante di Gupta, che ha debuttato in Toscana con la sua prima mostra fuori dall'India nel 2001. Oggi è infatti Electa a pubblicare, in collaborazione con la Galleria Continua (che lo ha "scoperto"), la sua prima importante monografia, con saggi critici di Elio Grazioli e Nicolas Bourriaud. Nelle illustrazioni a tutta pagina si definiscono le chiavi della sua riconoscibilissima personalità, legate all'estetica indiana: l'accumulazione di oggetti provenienti dalla vita quotidiana (piatti, ciotole, tenaglie, valigie, biciclette); la saturazione della scena con montagne-scultura eccessive e solenni; lo scintillìo dell'acciaio e dell'ottone. Ma dietro al gran luccicare di contenitori per il latte o per il riso si cela la riflessione sulle contraddizioni del sociale: se quasi il novanta per cento della popolazione indiana possiede uno di questi box, tanto belli che paiono progettati da designer, sono moltissimi coloro che non hanno i soldi per riempirlo di cibo. E solo dopo essere stato attratto dal baluginìo del metallo, l'occhio coglie la forma delle grandi vanitas di Gupta, un "ladro di idoli", che ruba oggetti dalle cucine indiane perché «sono come templi».
Il volume lo illustra bene quando allunga lo sguardo dagli anni Novanta sino agli ultimi progetti dell'artista, che di nuovo hanno stabilito un collegamento tra l'Italia e l'India riproducendo in nichel e in ottone – con effetti decisamente bollywoodiani – gli strumenti e gli ambienti del vecchio cinema di San Gimignano dentro cui è nata la galleria. Sculture-replica che duplicano in ottone lucido proiettori, pizze e pellicole. Produzioni costosissime che contribuiscono a far entrare Gupta tra gli artisti blue-chip, con dipinti di grandi dimensioni che vanno dai 250mila ai 450mila euro, e sculture che superano il milione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
1Aa. Vv., «Subodh Gupta», Electa, Milano 2010, pagg. 228, € 90.

© Riproduzione riservata