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La città ideale è il Luna Park

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In Primo Piano

La città ideale è il Luna Park

di Fulvio Irace
Non fatevi ingannare dal titolo, e prima di imboccare la scala mobile del Pompidou per visitare la mostra «Dreamlands» leggetevi Pinocchio e non dimenticate l'ultimo romanzo di James Ballard Kingsdome Come (in italiano Regno a venire), forse il più pessimista resoconto del declino dell'Occidente dopo la Fattoria degli Animali di Orwell.
Più che «Il Paese dei Balocchi», infatti, la grande rassegna parigina sembra voler mettere in scena la metafora di una società per cui la finzione è parte integrante della vita, la carta di credito sostituisce quella d'identità e la città si riduce al complesso labirinto di un Metro Centre. Un'analisi più che una profezia, ci tenne a precisare Ballard in una delle ultime interviste prima di morire: «Sono di una generazione per cui la città è ancora sinonimo di influenza culturale (Londra, Parigi, New York) ed economica. Ma ormai essa sta diventando un parco a tema (Las Vegas, Dubai), luogo affollato di vita (cinese) o aberrazione architettonica e sociale (Tokio)».
Con più di trecento opere d'arte, architettura, cinema e fotografia (dal futurista Depero al postmodernista Sottsass, da Olivo Barbieri ad Aldo Rossi, da Savinio a Cattelan ad Archigram, Koolhaas o Cedric Price), la mostra di Parigi accompagna il visitatore attraverso il «tunnel del divertimento» di sedici stazioni, che da Coney Island conduce diritto a Dubay, esplorando i temi di un immaginario urbano sempre in bilico tra la realtà e il suo doppio, tra copia e originale, tra pensiero critico e deriva surreale.
Il tema non è nuovo (primo a formularlo nel 1978 fu Rem Koolhaas in Delirious New York), ma qui è dispiegato con potenza d'effetti: le esposizioni universali e i parchi a tema per il divertimento di massa – prodotti dallo sviluppo del capitalismo – sono diventati modelli urbani più incisivi e certamente più seduttivi delle città ideali pianificate dalla comunità degli architetti.
Nel 1904 Coney Island – il centro di divertimento alle soglie di Manhattan – fu il primo laboratorio per il trattamento della «coscienza infelice» dell'uomo-massa forgiato dalla catena industriale di Henry Ford. Mezzo secolo dopo, il suo più sofisticato erede, vale a dire Walt Disney, fornì col progetto dell'Epcot Centre di Orlando la versione perfezionata e aggiornata alla consumer society del dopoguerra. Trasformata in realtà, la Paperopoli dei fumetti non era l'anti-città bensì la metropoli del futuro, quella dove soavemente si realizzava l'incubo di Marx allorquando teorizzava il feticismo delle merci e il loro assumere valore di esseri viventi, dismettendo o celando il loro naturale destino di oggetti d'uso.
In realtà, si sarebbe potuto partire da ancora più lontano: perlomeno dal 1852, quando chiusi i battenti dell'Esposizione Universale di Londra, il Crystal Palace venne smontato e ricostruito a Sydenham nel Kent, trasformandosi così da serra per le merci a Disneyland della borghesia vittoriana. Collegato alla capitale da una ferrovia (come Coney Island dalla metropolitana a Manhattan), Sydenham fu luna park e luogo di meraviglie, dove gli animali preistorici distribuiti nel giardino divulgavano le teorie di Darwin, mentre le ricostruzioni dei palazzi assiri, delle statue colossali di Abu Simbel o delle delicate trine dell'Alhambra sintetizzavano in scala quasi reale le aspirazioni a un viaggio intorno al mondo.
Abolito il confine colto tra arte e kitsch, il business dell'intrattenimento è oggi riconosciuto quale punta vitale della società del lavoro: il vertice ludico di un iceberg gestito con la precisione di una macchina e la cinica spietatezza di un'operazione finanziaria. Nel deserto del Nevada, Las Vegas è ancora la migliore rappresentazione di quella che Walter Benjamin aveva definito «fantasmagoria» ma che noi potremmo più letteralmente chiamare «fata morgana»: la città dei segni pubblicitari, l'isola di Circe accessibile ai frequentatori dei nuovi miti dell'artificiale e del virtuale.
Ma le «Terre dei Sogni» (o degli incubi?) sono ormai dovunque: non solo luoghi fisici – come Dubai, ad esempio, che ne è la più prepotente reincarnazione finanziaria, o nei vari quartieri "europei" della nuova Shangai – ma soprattutto nei modi di pensare e di presentare l'esistente connotandolo con l'insistenza di un brand. Il Guggenheim di Bilbao, certamente, ma anche la torre Agbar di Barcellona, il Cctv Centre di Pechino, il "cetriolo " di Londra, il futuro grattacielo "storto" di Milano: la lista è infinita e costituisce ormai la tipica anomalia della città nella condizione globale. Quella cioè di costituirsi come "tema" in sé, di sviluppare un'identità non più basata sulla continuità col suo passato, ma forgiata dalla logica dell'offerta. Quindi dall'abbondanza, dalla novità, dalla peculiarità.
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«Dreamlands. Des parcs d'attractions aux cités du futur», a cura di Didier Ottinger e Quentin Baiac, Parigi, Centre Pompidou; fino al 9 agosto.

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