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Scuole d'arte con cucina

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Scuole d'arte con cucina

di Angela Vettese
Il boulevard centrale di Belgrado era intitolato al Maresciallo Tito. Dopo la sua caduta, quasi ogni governo gli ha cambiato nome. Alcuni edifici monumentali vi conservano i segni della guerra, altri sono smaglianti per la ricostruzione recente, tutti ospitano nelle loro vetrine i brand globali, che sembrano arrivare da Danubio da Budapest e da Vienna. Tra innovazione e trauma, da dieci anni qui ci si domanda se l'arte possa essere una presenza reale nella vita sociale e quindi, anche, come la si possa insegnare: dal 2001 la manifestazione Real Presence, curata da Dobrila Denegri e Bilijana Tomic ha costituito un momento di riflessione impagabile.
A ogni inizio di settembre, docenti e studenti delle maggiori scuole d'arte del mondo si sono incontrati nella biblioteca, nei grandi ristoranti ex-socialisti (tre euro a testa per salsicce e fagioli), nell'enorme casa dello studente, nello spazio espositivo rotondo dove hanno fatto le loro prime comparse, negli anni Settanta, artisti come Braco Dimitrievic e Marina Abramovic, nelle nuove gallerie della città, nei centri di cultura stranieri e nelle ambasciate, inclusa quella italiana che, in questi giorni, ospita una collettiva legata alla manifestazione.
Il percorso di Real Presence terminerà tra una settimana, dopo la fine del l'ultimo meeting che è ora in corso: dieci anni sono un tempo importante e nel frattempo si è riusciti a ottenere alcuni degli obiettivi fondamentali, quali quello di fare uscire la Serbia dall'isolamento culturale e quello di veder sorgere la discussione sull'arte visiva e sul suo insegnamento in altri luoghi. Anche quest'anno, gli attori del dibattito sciamano a decine e così pure studenti di ogni paese, che animano la notte e si scambiano informazioni.
Ha aperto i lavori il direttore della blasonata accademia di Vienna, Stephan Schmidt-Wulffen, che ha raccontato nove anni di fatica per svecchiare un'istituzione che ha forse troppo passato; poi, ha ceduto il passo al direttore della scuola più giovane, che aprirà questo settembre a San Gallo. Adrian Notz racconta che ci saranno ventuno studenti con differenti età e formazioni, una cucina incorporata tra gli studi, nessun laboratorio specifico ma la possibilità di negoziare con scultori, fonderie, pittori, designer di aiutare anche economicamente la produzione delle opere.
Tra questi due modelli esistono quelli intermedi, come la Staatliche Hochschule di Francoforte, allegata al mitico luogo di esposizioni Portikus, e il Central Saint Martins College di Londra, forse le due scuole più ricercate del momento in Europa; per la Francia c'è la sua scuola più innovativa, quella di Nantes; per gli Stati Uniti manca il corso del Mit diretto con grinta da Ute Meta Bauer, ma c'è il numero uno della West Cost, Ucla di Los Angeles. Notizie anche dall'Islanda e dall'Europa del Nord, dove la protezione statale per i giovani artisti tende a diminuire. Per l'Italia raccontano le proprie esperienze grandi accademie come quella di Brera, Palermo, Carrara e piccoli corsi universitari come quello dello Iuav a Venezia.
Tutti si chiedono come resistere a una crisi che azzera privilegi considerati sicuri fino a due anni fa, ma ci si pongono anche domande di più largo respiro: è necessario insegnare delle tecniche nell'epoca in cui ogni artista sembra volersi fabbricare la sua? Quanto conta la formazione teorica in una disciplina che non si giustifica più solo con un risultato piacevole, ma ha bisogno di motivazioni articolate? Quanto spazio occorre dare al "fare" (e quindi banalmente agli atelier) ora che il laptop sembra essere in grado di contenere tutto lo spazio necessario a progettare e realizzare? Molti si chiedono come si possano creare dei dottorati per artisti e molti parlano di incroci tra luoghi di formazione e residenze.
Al di sotto, striscia una domanda che non ci si deve fare: cosa possiamo definire arte? Purtroppo è su questo paradosso – l'impossibilità di definire ciò che si insegna – che si scontra ogni argomentazione. Alcuni libri usciti recentemente testimoniano l'attualità del problema, tra cui Rethinking the Contemporary Art School di Brad Buckley e John Commons (Nscad, Canada 2009), Art Schools di Steven Henry Maddoff (Mit Press 2009) e Learning Mind, Experience into Art, a cura di Mary Jane Jacob and Jacqueline Baas (Unversity of California Press, 2009). Ma alla fine di questo convegno, così come di molti saggi presenti in quei libri, si scopre che non è così determinante aderire al modello di università o di accademia, di scuola a numero chiuso o di vasti numeri, e nemmeno sapere cosa vogliamo intendere per arte. L'eredità migliore che lascia Real Presence è che buona scuola è quella che crea entusiasmo tra gli studenti, li può seguire e sa indirizzarli verso le loro urgenze, aiutandoli a metterle a fuoco, in atto e in forma.
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