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Variopinto omaggio a Fortuny

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In Primo Piano

Variopinto omaggio a Fortuny

di Ada Masoero
Palazzo Fortuny si apre, in questo autunno, a sette mostre, concepite da Daniela Ferretti come un'unica, grandiosa installazione ramificata lungo i quattro piani della gran fabbrica gotica, nel labirinto di sale che Mariano Fortuny i Madrazo (1871-1949) volle trasformare in una sorta di antro del mago: oscuro e severo al piano terra; anche più buio ma sontuoso al piano nobile, con le pareti drappeggiate dei suoi sontuosi tessuti, e poi sempre più chiaro, fino allo spazio luminoso sotto le capriate del tetto. A unire tutte le mostre è un duplice filo: c'è in primo luogo l'omaggio evidente al gusto per la sperimentazione di Mariano Fortuny, artista dai molti talenti che fu pittore, scenografo, stilista, creatore di superbe sete e velluti di gusto Art Nouveau e di alcuni degli abiti più raffinati e, a un tempo, sensuali del secolo scorso: i "Delphos", ispirati alla tunica plissettata dell'Auriga di Delfi. Amati da Eleonora Duse, Isadora Duncan e dalle icone di stile del '900 fino a Peggy Guggenheim e oltre, sono oggi citati con una fortuna planetaria (ma senza la sublime sensualità di quelle sete monocrome e impalpabili) da Issey Miyake. Una sequenza di questi preziosissimi abiti, della collezione di Keith H. Mc Coy di Los Angeles, oltre a cappe di velluto operato, costumi e accessori, è esposta nel gran salone al primo piano. Ma insieme alle sue creazioni il palazzo espone i lavori di artisti di oggi che, come lui, praticano le arti decorative: al piano terreno i tessuti fantasiosi dell'irlandese Nuala Goodman, riuniti nella mostra-installazione Gardens, insieme a ritratti di designer e architetti suoi amici, da Sottsass a Mendini. Al primo piano ecco i gioielli-scultura di Alberto Zorzi, presentati da Enrico Crispolti, in cui l'oro e l'argento convivono con la pittura a olio, e all'ultimo, nello spazio Wabi-Sabi, il progetto Altre Nature di Giorgio Vigna, con i suoi magici oggetti di vetro, rame, oro, radici e altri materiali che reinventano forme naturali: i "sassi" di vetro o di rame ossidato; le ciotole di rame colme di vetro purissimo, come fosse acqua di fonte, i "fiori", i monili.
C'è però un altro filo a unire tutte le mostre, ed è quello del silenzio, così evidente nelle tre bellissime rassegne di pittura e fotografia: sin dal primo piano si annuncia quella di Marco Tirelli, che dei silenzi metafisici ha saputo fare la cifra, intensa e mai ripetitiva, del suo lavoro recente. Che trova poi spazio nel salone del secondo piano, dove i minuziosi e grandissimi lavori a inchiostro e tempera acrilica, presentati da Francesco Poli, con quei solidi affioranti dal vuoto (sfere e cilindri perfetti; il poliedro ingigantito della Melancolia di Dürer; la scala del Filosofo in meditazione di Rembrandt che, sola, si avvita nel nulla...), dialogano con le forme altrettanto pure delle sue sculture in legno, non meno che con le 21 preziose Nature morte di Giorgio Morandi esposte nelle due "salette nere" del primo piano: opere di collezione privata, molte mai esposte prima, degli anni tra il 1921 e il 1963, scelte da Daniela Ferretti e Giorgio Calarota. Se qui sono i silenzi della meditazione a dominare, nelle 40 grandi fotografie di Luca Campigotto, commentate da Walter Guadagnini, si impongono i silenzi grandiosi della natura. "My Wild Places" è il titolo scelto dal fotografo veneziano-milanese per queste magnifiche immagini, che trovano il "selvaggio" nel deserto di Atacama e nei ghiacci della Lapponia, in Patagonia e nello Yemen o in India, non meno che sulla domestica spiaggia di Lignano o nei vertiginosi camminamenti scavati dai nostri fanti sul Pasubio, nella Grande guerra.
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