di Ada Masoero
«Modernikon», il titolo della mostra curata da Francesco Bonami e Irene Calderoni per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fonde in sé le due polarità entro le quali ha oscillato per oltre un secolo – e tuttora oscilla – l'arte russa: il Modernismo da un lato, grande categoria entro la quale confluiscono le rivolte delle avanguardie d'inizio '900, e dall'altro l'icona, che dell'anima russa è la forma espressiva più tradizionale. Del resto, ripetono gli slavisti, quella cultura si fonda da sempre su una forma di "negazione della negazione", per cui il nuovo, in quanto frutto del ribaltamento della fase precedente, finisce per rigenerare ciclicamente forme rinnovate di passato. Modernismo e icone non sono dunque un ossimoro. Senza contare, aggiunge Irene Calderoni, che il Modernismo ormai è diventato esso stesso "icona", oggetto com'è di una continua rilettura da parte della nuova generazione di artisti che si è imposta al passaggio del millennio.
Nei vent'anni che ci separano dal collasso del regime sovietico, l'arte russa ha già vissuto due mutazioni: nel primo decennio post-sovietico, finalmente usciti dalle cucine delle abitazioni comuni dove fino ad allora avevano esposto clandestinamente, al riparo dal controllo pervasivo del regime, gli artisti irruppero nelle strade, esercitando un'arte politica radicale, che gridava le proprie ragioni con le brutali performance dell'Azionismo moscovita. Da qualche anno invece, esaurita la fase di lotta, si è ripreso a riflettere sull'arte e si è scoperto che guardare nuovamente alla forma, dopo decenni in cui l'accusa di "formalismo" era la più esiziale che si potesse rivolgere a un artista, è di per sé un gesto sovversivo. È questo lo scenario, ancora in evoluzione e quindi doppiamente stimolante, a cui guarda la mostra appena inaugurata, che porta a Torino 20 artisti russi in collaborazione con la fondazione moscovita Victoria, alla sua prima uscita internazionale. Gli artisti, già noti o agli esordi, sono quindi in larga parte attivi a Mosca e tutti appartengono alla generazione che va dai 25 ai 50 anni: alcuni, come Anatoly Osmolovsky, hanno esordito nell'Azionismo per poi riconoscerne i limiti e rivolgersi a un'arte più formale; altri, come David Ter-Oganyan, figlio di un fondatore dell'Azionismo, si sono formati in quell'alveo per poi uscirne; altri ancora, come Pavel Pepperstein, si muovono in seno al Concettualismo, sulla scia dei Kabakov, ma non temono di esibire tutta la loro maestria. Nessuno però ha scelto il disimpegno dell'"arte per l'arte": nei loro lavori infatti affiorano ora la condanna (ma talora la nostalgia) del passato, ora la disillusione del presente; sempre la critica per la realtà sfrenatamente consumistica in cui sono stati catapultati: così Osmolovsky in Rot Front Remains fonde nel bronzo, e ingigantisce, il vuoto che si crea all'interno di un pugno chiuso, il simbolo del bolscevismo, dando forma a un'assenza forse rimpianta; Ter-Oganyan nelle Black Geometries sembra citare le ricerche suprematiste di Malevicv ma traccia in realtà le sagome degli stati africani soggiogati dal colonialismo europeo e dei paesi assoggettati dall'imperialismo sovietico, mentre all'ingresso della mostra, con Alexandra Galkina, rende omaggio ancora una volta al geometrismo delle avanguardie e al contempo cita quel luogo simbolico di identificazione collettiva che è la metropolitana di Mosca. Pepperstein poi, nei suoi bellissimi disegni inediti intreccia il suprematismo con il simbolismo russo, le matrioske con modelli barocchi, in cerca di "un nuovo stile" che rappresenti la Russia. Anche l'ucraino Sergey Bratkov esplora la memoria del passato e l'opacità del presente nelle sue fotografie impeccabili e velenose, percorse ora dal sarcasmo ora dal sentimento di desolazione seguito al disfacimento dell'"impero", mentre Olga Chernysheva si ripiega in una dimensione diaristica, privata, unendo lo sguardo dell'antropologia e la voce della poesia, e Victor Alimpiev crea dei video in cui una gestualità enfatica e una cromia soffusa e preziosa proiettano la folla dei personaggi in una dimensione irreale. Ma chi forse più di tutti sa dare voce al nuovo corso dell'arte russa è Dmitri Gutov, che nei suoi lavori di fili di ferro, leggibili solo da un preciso punto di osservazione, evoca disegni di Rembrandt che di "sciolgono" però in un groviglio gestuale allo spostarsi dell'osservatore, e insieme va con la memoria alle recinzioni degli orti illegali che la gente un tempo si ritagliava nella foresta di Kuzminsky, per sopravvivere.
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1«Modernikon. Arte contemporanea dalla Russia», Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fino al 27 febbraio. Catalogo
Srr Press.
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