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Farsi strada tra rovine, mugugni e viabilità

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Farsi strada tra rovine, mugugni e viabilità

Come tutti i matrimoni di convenienza, ogni connubio tra lavori pubblici e archeologia si celebra fra i mugugni e lascia uno strascico di malumori. Imprese che paventano il blocco dei lavori e guardano in cagnesco i funzionari di Soprintendenza, sindaci e assessori pronti a ogni sotterfugio pur di non informare gli archeologi di un qualche rinvenimento casuale, ispettori e soprintendenti e direttori di museo che passeggiano sospettosi sull'orlo dei cantieri; infine, i cittadini divisi tra chi si rallegra a ogni coccio che emerge dalle zolle e chi impreca contro un suolo tanto fertile di storia, e invidia i Paesi dove su enormi estensioni di territorio non c'è traccia di presenze umane, ma anche quelli dove mancano efficaci leggi di tutela.
Intanto, i bilanci traballano: e mentre i costi di strade e ferrovie lievitano per "colpa" dell'archeologia, gli archeologi di mestiere, con le casse svuotate dagli irresponsabili tagli del 2008 ai Beni culturali e gli organici in via di esaurimento, vedono qualche volta in strade, autostrade e Tav l'occasione propizia per fare almeno qualche scavo, ogni tanto.
Anche da questo angolo visuale si vedono dunque i vizi di fondo, anzi il degrado etico, di un Paese che ha inventato la tutela dei reperti archeologici e l'ha insegnata al mondo, ma non riesce a farne un tema civile, un soggetto di cui parlare nelle scuole, una prassi consolidata e condivisa.
I professionisti della politica alternano cinicamente scontate vanterie sulle bellezze (anche archeologiche) d'Italia e deroghe, condoni e permessi a chi le devasta: Cetto La Qualunque che pianta gli ombrelloni sulle rovine non è una macchietta, è una tranche de vie. La cultura e la pratica dell'archeologia preventiva, che è da noi ancora ai primi passi dopo la prima legge del 2005, non è il toccasana, non basta a cambiare la percezione generale del problema, né a portare i temi della tutela all'attenzione dei cittadini. Ma può essere un primo passo importante, se solo la prendiamo sul serio e ci chiediamo (non solo da archeologi, ma da cittadini) quali debbano essere le regole del gioco.
La straordinaria ricchezza del nostro suolo non è solo materia per vanterie a vuoto, è anche una grande responsabilità per noi tutti. Statue e ceramiche, monete e lucerne, tombe e città che ancora si nascondono per ogni dove formano un immenso archivio, raccontano storie di uomini e donne come noi, che vissero dove noi viviamo.
Rispondono a domande (per esempio, a quelle poste dai testi degli storici antichi), ma soprattutto pongono nuove domande: ci impongono di pensare al nostro passato, di provare a intendere come in esso si intreccino tenaci fili di continuità e insanabili fratture. Riguardano la storia economica, la vita religiosa, le guerre e la pace, la vita privata e la politica degli Antichi; cioè i semi da cui, di generazione in generazione, è germinata l'Italia, anzi l'Europa che conosciamo. Non possiamo permetterci che un'opera pubblica, nemmeno la più importante, distrugga testimonianze tanto preziose. Ma questo vuol dire che, dovunque stia per stendersi il nastro di un'autostrada, una pattuglia di archeologi deve scavare lungo il percorso, palmo a palmo? No.
La corretta pratica dell'archeologia preventiva prevede un'accuratissima indagine conoscitiva, che consenta di calibrare il tracciato "prevedendo" (nei limiti del possibile) le potenziali preesistenze archeologiche, mentre il ricorso allo scavo dev'essere limitato al massimo, e non solo per ridurre le spese ma per una scelta deontologica. Infatti oggi è sempre più evidente che bisogna (come scrive qui accanto Andreina Ricci) «scavare meno e pubblicare di più», per «salvaguardare il più possibile anche il patrimonio sepolto» lasciandolo alle generazioni future.
Che il nuovo e più rispettoso tracciato autostradale sul percorso costiero dell'Aurelia si sia accompagnato a una seria indagine diagnostica dell'Università di Tor Vergata (che la Ricci ha diretto) è, fra troppi indizi di degrado, un buon segno. È importante che a capirlo non siano solo gli archeologi, ma i cittadini.
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