ArtEconomy24

E gli indiani vanno al Maxxi

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

E gli indiani vanno al Maxxi

Piace a tutti «Indian Highway». Perché è ben allestita, perché è sufficientemente esotica da farci ricordare le vacanze, perché le opere sono avvolgenti e comunicative, e in fondo perché, diciamolo, osservare un po' di abilità manuale arresta l'occhio e dà conforto. La mostra è partita quattro anni fa dalla Serpentine Gallery di Londra, sotto la guida di due guru del sistema espositivo come Julia Peyton Jones e Hans Ulrich Obrist, ed è cresciuta di sede in sede, arrivando a contare il doppio delle opere. Ha attraversato Oslo, Herning, Lione, arricchendosi ogni volta di un progetto curatoriale specifico, una mostra nella mostra a cura di artisti indiani, che poi diventa parte integrante alla tappa successiva. Così anche il catalogo, un vero e proprio punto di partenza per conoscere l'arte indiana, con tanto di utilissima guida in coda, città per città. Questo approccio ha consentito di supplire al problema di una visione monolitica e istantanea, e la mostra è divenuta un rizoma, un'entità capace di stabilire connessioni di senso in più direzioni. Non è banale, se pensiamo a quanto è attuale il problema dell'identità dei Paesi postcoloniali e che gli studi principali su questi temi – da Edward Said a Homi Bhabha, fino a Edouard Glissant – ci indicano che al crollo del sistema culturale occidentale, segue il recupero di una storia fatta di tracce, ritorni e sovrapposizioni. Una storia delle sottoculture, più fragile e intuitiva, ma in sincronia con il mondo caotico e imprevedibile, dove New York è la nuova Calcutta e siamo tutti migranti e viaggiatori.
«Indian Highway» è partita proprio dal bisogno di conoscere le grandi culture rimaste marginali al campo dell'arte, e si è chiesta in che modo potesse avvenire un recupero consapevole. Così eccoci al Maxxi, immersi tra i suoni della foresta del collettivo Desire Machine; c'è l'ironica carta da parati del duo Thukral e Tagra, che presenta il drammatico problema dell'Aids; ci sono i barili di catrame di Sheela Gowda che riusa i materiali della tradizione indiana per creare allusioni e metafore; le diverse 100 mappe dell'India di Shilpa Gupta e la sua installazione sonora che riproduce i discorsi di indipendenza di India e Pakistan nel '47; il tuc tuc fatto di finte ossa di Jitish Kallat. Ma si vede che Bharti Kher, con il suo trittico ammaliante fatto di bindi, ha studiato a Londra e utilizza i codici della produzione artistica occidentale, così come le grandi foto di Dayanita Singh non hanno, da anni, niente da invidiare ai grandi maestri europei della fotografia. Se vediamo anche lontanamente un utensile d'acciaio, andiamo immediatamente a Subodh Gupta, che ne ha fatto il suo marchio distintivo, ma la realtà è che l'India ne sarà il maggiore produttore mondiale in pochi anni. Così, ammaliati da odori e suoni, sotto la campata gotica di Sumakshi Singh, che rielabora l'iconografia di Giotto, Cimabue e le storie di San Francesco, non siamo né qui né lì ma in quell'arcipelago creativo che è il mondo dell'arte.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Indian Highway, Roma, Maxxi
fino al 29 gennaio 2012; info: www.fondazionemaxxi.it

© Riproduzione riservata