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Bentornato Ermafrodito

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Bentornato Ermafrodito

Perché il principe romano Camillo Borghese accettò, ai primi dell'Ottocento, di vendere a Napoleone Bonaparte la strepitosa collezione di marmi antichi amorevolmente raccolta dai suoi avi nella Villa suburbana del Pincio? E perché Napoleone accettò di comperarla pagandola addirittura tre volte il prezzo di stima?
L'occasione di rivedere a Roma i più celebri capolavori della collezione Borghese ritornati nella sede originaria di Villa Borghese dopo duecento anni dalla loro partenza per Parigi (dove oggi rappresentano il cuore delle raccolte romane del Louvre), induce a riaccendere vecchi e mai sopiti interrogativi su uno dei più gravi e disastrosi atti di spoliazione del patrimonio artistico italiano.
I protagonisti di questa singolare vicenda furono sostanzialmente cinque: il principe Camillo Borghese, sua moglie Paolina Bonaparte (sorella di Napoleone), l'imperatore dei Francesi Napoleone I e i due suoi consiglieri artistici Dominique Vivant Denon ed Ennio Quirino Visconti.
Quando l'irrequieta Paolina rimase vedova del suo primo marito (il generale Victor-Emmanuel Leclerc), il fratello Napoleone si mise all'opera per trovarle un secondo consorte, che stavolta sarebbe dovuto essere italiano per consolidare meglio i legami della famiglia Bonaparte con il Bel Paese. Correva l'anno 1803. Napoleone aveva puntato gli occhi su un nobile milanese di mezza età, il duca Francesco Melzi d'Eril, il quale però declinò garbatamente l'invito adducendo il fatto di essere uno scapolo cinquantenne ormai con le proprie "abitudini" (tra le quali figurava un'amante fissa d'antica data).
Quando il cardinal Caprara presentò a Napoleone quale nuovo candidato il principe romano Camillo Borghese, il Bonaparte espresse non poche perplessità. Certo, si trattava di un esponente di un'illustrissima casata che aveva dato alla Chiesa papi e cardinali di prim'ordine, era un uomo ricco di terre, di ville e di palazzi (forse un po' meno di contanti) e aveva anche aderito con entusiasmo agli ideali della Francia napoleonica. Però, appariva vacuo e privo di fascino. I maligni dicevano che «pur esprimendosi con una certa vivacità, non aveva nulla da dire» e che «nessuno era più bravo di lui a guidare un tiro a quattro, ma nessuno meno di lui era in grado di sostenere una conversazione». Pur essendo il figlio del mitico Marcantonio IV Borghese, grande mecenate e uomo di raffinatissima cultura, Camillo scarseggiava di istruzione e amava senz'altro più i cavalli dei marmi antichi e barocchi, di cui le ville e i palazzi di famiglia traboccavano.
Il cardinale Caprara però insistette su quel candidato (per il quale "tifavano" anche Giuseppe e Luciano Bonaparte, i fratelli di Napoleone). A questo punto Camillo Borghese e Paolina vennero fatti incontrare a Parigi, e incredibilmente, si piacquero al l'istante. Ventotto anni lui, ventitré lei, i due amoreggiarono intensamente per settimane e si sposarono in gran fretta senza attendere il consenso di Napoleone (che quando lo seppe andò su tutte le furie). Ma, nonostante il fuoco iniziale, quel matrimonio si rivelò un autentico disastro. Fu un'unione segnata da tradimenti clamorosi (soprattutto da parte di lei), dalla tragedia della morte del figlio di primo letto di Paolina, il piccolo Dermid, e da una vita sostanzialmente separata, vissuta lontano da Roma e sfociata in un inevitabile divorzio.
Da questo quadro familiare un po' desolante emerge un dato interessante: Camillo visse spesso lontano da Roma, dai suoi palazzi e dalle sue ville, nutrendo un evidente disinteresse per i tesori d'arte che vi si celavano. La commissione a Canova dalle statua di Paolina Bonaparte come Venere vincitrice fu una splendida eccezione. Per inciso, Canova consigliò alla principessa di non farsi ritrarre come Venere bensì come Diana vergine e cacciatrice, ma di fronte a questo consiglio Paolina scoppiò a ridere dicendo che se l'avessero ritratta come vergine non ci avrebbe creduto nessuno. Tra la modella e lo scultore evidentemente non correva buon sangue. Quando chiesero a Paolina se avesse davvero posato nuda davanti allo scultore, lei rispose di sì, ma che non era stato un problema in quanto Canova, sottolineò malevola, «non era un vero uomo». Napoleone, e soprattutto i suoi due consiglieri Denon e Visconti, avevano dunque capito che Camillo Borghese era l'opposto di suo padre Marcantonio: a lui le statue non interessavano. E agirono di conseguenza.
Nel 1804 Napoleone era diventato l'imperatore dei francesi. Vivant Denon – l'uomo che stava creando per lui il Musée du Louvre – cominciò a blandire l'orgoglio del novello Cesare suggerendogli che era venuto il momento di acquistare marmi e oggetti antichi per meglio manifestare al mondo che ora era lui l'erede diretto della gloriosa romanità. Napoleone fu pienamente d'accordo, tanto più che una notevole collezione d'antichità romane ce l'aveva già quasi in casa: era quella del cognato Camillo Borghese.
Nel 1806, in gran segreto, l'imperatore incaricò l'antiquario Ennio Quirino Visconti di scegliere e stimare i marmi antichi di quella collezione. Questi marmi si trovavano allora mirabilmente incastonati nelle sale di Villa Borghese, dove solo venti anni prima il principe Marcantonio li aveva fatti sistemare in uno spettacolare allestimento creato apposta dall'architetto Antonio Asprucci.
Ennio Quirino Visconti, che dal 1799 viveva a Parigi, compì un lavoro impeccabile. Dalla capitale francese, a memoria, senza avere i marmi sotto gli occhi, egli operò una selezione perfetta. Evidenziò innanzi tutto i sette capolavori imperdibili della collezione: il Gladiatore Borghese, il Sileno e il Bacco bambino, l'Ermafrodito (cui Gian Lorenzo Bernini aveva aggiunto il sottostante materasso di marmo), il celeberrimo Vaso Borghese, l'Antinoo e i colossali ritratti di Lucio Vero e di Marco Aurelio. A queste sette statue vennero assegnati valori altissimi, dal milione di franchi per il Gladiatore, ai 200mila per il Vaso Borghese fino ai 40mila per l'Antinoo. Il resto dei marmi selezionati – per un ammontare complessivo di quasi 600 pezzi – venne diviso in tre categorie di merito a seconda dell'integrità, dello stato di conservazione, dell'interesse del soggetto e della qualità d'esecuzione. A ogni categoria venne assegnata una fascia di valore, oscillante dai 25mila ai 6mila franchi al pezzo (ma il solo Centauro cavalcato da Amore, compreso nella prima fascia, venne singolarmente valutato 60mila franchi).
A conti fatti, secondo Ennio Quirino Visconti il prezzo di mercato dell'intera collezione Borghese si aggirava attorno ai 3milioni e 900mila franchi. Ma come fece l'antiquario romano a valutare le sculture senza averle sotto gli occhi? Semplicissimo: Visconti aveva quelle statue letteralmente stampate nella testa perché, dopo i lavori di riassetto della Villa Borghese nel 1782, il principe Marcantonio aveva assegnato proprio a lui il compito di redigere il catalogo dei «Monumenti scelti borghesiani». Nessuno al mondo, dunque, conosceva meglio i marmi Borghese di Ennio Quirino Visconti.
Una volta stimata la collezione a 3milioni e 900mila franchi, Visconti prese carta e penna diede a Vivant Denon un suggerimento sorprendente: il prezzo dei marmi doveva essere aumentato almeno di un terzo della stima. In altre parole, la collezione Borghese andava acquistata a non meno di 5milioni di franchi. L'improvvisa lievitazione del prezzo parrebbe di primo acchito un'autentica truffa ai danni dello Stato, visto che l'acquirente Napoleone avrebbe largamente foraggiato un suo parente strettissimo, il cognato Camillo. Il Visconti giustificò invece così la lievitazione: considerata la personalità del compratore, sarebbe stato molto auspicabile un plateale atto di generosità, anche per rimuovere le perplessità che Camillo aveva espresso riguardo alla vendita. Qualcuno ha sospettato che Camillo Borghese, trovatosi costretto a cedere i marmi al suo onnipotente cognato, abbia fatto in modo di far lievitare il prezzo tergiversando, e soprattutto facendo credere di avere aperta una trattativa parallela con gli inglesi per la cessione della collezione. Vero o non vero, l'epilogo di questo "soffiare sul prezzo" fu a dir poco clamoroso. Pur di aggiudicarsi le statue, Napoleone (caldamente consigliato da Denon) si disse disposto a pagare la collezione ben 13 milioni di franchi! A questo punto, Camillo si "arrese", la trattativa venne chiusa e nel 1807 si stilò il decreto d'acquisto. Il principe Borghese avrebbe ricevuto la mirabolante somma pattuita sotto forma di contanti a rate e di proprietà terriere (come il feudo di Lucedio nel Vercellese). In realtà, alla fine della vicenda, Camillo si dovette accontentare di "soli" 8 milioni di franchi perché il divorzio da Paolina e l'avvento della Restaurazione interruppero il flusso dei pagamenti.
Le statue Borghese, estirpate dai muri, tolte dai piedestalli e rimosse dalle nicchie, vennero imballate e spedite a Parigi. Avrebbero dovuto viaggiare via mare, ma le navi inglesi presenti nel Tirreno sconsigliarono questa modalità di trasporto. A partire dal 1808 e fino al 1811 vennero organizzati i convogli che, via terra, scavalcarono faticosamente le Alpi e portarono i marmi a destinazione. Questi viaggi costarono al governo francese una vera fortuna: la bellezza di 800mila franchi!
Quando Canova vide quei capolavori a Parigi nel 1810, ebbe il coraggio di esprimere personalmente a Napoleone il suo più vivo disappunto: «Gran orrore Maestà! Vendere capi d'opera di quella sorta! Quella famiglia sarà disonora finché vi sarà storia!». Povero Canova, speriamo che lassù qualcuno gli dica che, almeno per quattro mesi, i Marmi Borghese sono tornati a casa.
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