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«Bassi rilievi» alla Borghese

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«Bassi rilievi» alla Borghese

Nel suo ineffabile franco-veneto, appena scialbato d'italiano, Antonio Canova racconta la sua prima visita a Villa Borghese: era il 15 ottobre 1779 e il giovane che sarebbe divenuto il primo artista di Roma non aveva ancora ventidue anni: «Giunsimo al palazzo il qualle è tutto al di fuori ripieno di bassi rilievi antichi, si salle per una scalla ove si entra in una Salla che sembra un Paradiso tutta incrostata di pietre bellissime con quattro belle statue antiche poste nelli locchi più addatti come un quasi dirò mausoleo di bella architettura. Vi sono poi altre statue e bassi rilievi, sopra la cornice incomincia la pitura del sofitto qual è grandissimo, verso il di dietro vi è un'altra salla non meno eccedente a questa, al di fuori cioè di dietro vi sono sopra piedistalli moltissime statue». Il Paradiso ospitava buona parte dei marmi antichi dei Borghese che avevano avuto un grande papa, Paolo V, e un grande collezionista, il cardinal Scipione. Il palazzo, in mezzo a un «grandissimo bosco ove eravi molti cervi», orti coltivati e giardini popolati da sculture e da fontane, era verso il 1780 in subbuglio: il principe, erede delle collezioni seicentesche, aveva iniziato da qualche anno a rimodellarlo. I lavori dureranno diversi anni ancora e il risultato fu abbagliante. Ma il principe morì col nuovo secolo e nel 1807 suo figlio, Camillo, marito infelice di Paolina Bonaparte, fu costretto a cedere la sua collezione di antichità, reputata allora il più alto florilegio di sculture classiche esistente, alla Francia. Roma rimase indiscutibilmente più povera e i Borghese non vennero mai saldati. La mostra che si tiene a Villa Borghese consente ad alcune di quelle opere mirabili di tornare per un po' di giorni al luogo dove si trovavano sin dal Seicento. La Villa del Cardinal Scipione non è quella che vediamo oggi e non è nemmeno quella che aveva ammaliato il giovane Canova. Fra il 1775 e l'inizio degli anni Novanta il Principe Borghese con l'aiuto di un brillante architetto, Antonio Asprucci e dei migliori artisti e mercanti di Roma rivestì il palazzo di marmi rari, di bronzi dorati, di mosaici e di affreschi, una sorta di padiglione di Armida nel gusto trasognato del romanzo di Jan Potocki, il Manoscritto trovato a Saragozza, ma per quanto io sia incline a questi sogni devo ammettere che quanto si fece allora ha più da spartire con gli ornamenti che con le opere d'arte vere. Nessuno degli acquisti di Marcantonio eguaglia quello dell'avo cardinale: nulla commissionò al Canova che pur conobbe né tanto meno a Louis David che avrebbe potuto interpellare quando il pittore si trovava a Roma (dove imparò prima l'arte e dipinse poi il quadro più famoso dell'epoca, Il Giuramento degli Orazi). Don Marcantonio restò sempre legato ai suoi privilegi e alle sue tendenze artistiche; e d'altra parte come dargli torto? Coi tempi che correvano era più prudente restare nei palazzi e nelle sagrestie che andare nelle piazze, continuare a riverire Pio VI che incontrare i giacobini. Come invece avrebbe voluto fare suo figlio Camillo, il quale come tutti i rivoluzionari teorici finì legandosi al regime autoritario che sempre si sostituisce alla rivoluzione. Nonostante tutto ciò (e nonostante la mia simpatia personale per il padre) Camillo Borghese fece molto per la gloria di Roma assicurando alla raccolta, che oggi è nostra, due capolavori assoluti, la Danae del Correggio e il ritratto di sua moglie Paolina nelle vesti, anzi nelle nudità, di Venere vincitrice, del Canova.
Siamo oggi in grado di poter indovinare quale era l'idea del mondo antico favorita da Don Marcantonio e da Asprucci e siamo grati ad Anna Coliva per la sua tenacia nella realizzazione, in tempi poco allegri, di questa straordinaria esposizione (assieme ai funzionari del Louvre). Ci è offerta, per poco tempo, l'opportunità di capire la visione, o meglio il fondale da teatro, del Settecento. Anche se appare, ovviamente, un po' sbiadito riesce comunque a ricreare dopo due secoli il senso di incanto che provava allora chi si avvicinava a quegli interni radiosi. È capitato anche a me di provare lo stesso entusiasmo quando visitai per la prima volta quelle stanze mezzo secolo fa. Le circostanze mi hanno consentito poi di ritrovare alcune vecchie carte su quei luoghi, e di incontrare nei sotterranei del Louvre alcuni marmi coperti di polvere nei quali indovinai descrizioni imparate a memoria come la Polimnia ora esposta a Roma. Potei così ricostruire idealmente alcuni ambienti della Villa. Ma non erano maturi i tempi e quando proposi nel 1992 di chiedere in prestito alla Francia diverse statue che erano esiliate nei depositi come testimonianze del cattivo gusto neoclassico, tutto cadde nell'indifferenza. Si preferì comprare un posacenere senza cenere – o è un calamaio vittoriano senza inchiostro? – da mettere in una vetrinetta accanto alla Paolina del Canova.
Ma torniamo all'oggi e ammiriamo lo sforzo che si è compiuto e il catalogo che si è approntato (abbastanza equilibrato anche se, come è fatale, chi scrive oggi tende a ricordare quel che ha fatto e a dimenticare quel che hanno fatto gli altri). Dovrei solo deplorare la mise en scène della bella rassegna. Sembra essere stata affidata a un appassionato di Lego o di Meccano: come scrisse in una sua recensione di molti anni fa Giuliano Briganti in certi casi sarebbe meglio che gli architetti restassero a casa. Ma copriamoci ogni tanto gli occhi e andiamo avanti.
Ecco a Roma alcune opere che tornano alla luce in cui nacquero: la Venere marina che Winckelmann considerava quasi pari alla celeberrima Venere dei Medici, l'Ares Borghese, archetipo di bellezza virile nonostante un che di femmineo (che assieme all'anello che gli cinge la caviglia dimostra come si tratti di Achille e non di Marte). E infine il Centauro con le mani legate cavalcato da Amore (alcuni pensano che non sia Cupido, ma un genio bacchico) «opera di singolare morbidezza» in cui si fondono la parte umana e quella animale di noi tutti, lavoro insigne davvero anche per la profondità del pensiero che cela la sottomissione dell'intelletto a forze più crude come l'amore o l'ebrezza. È anche ammirabile come questo marmo sia sempre stato rispettato lungo i secoli: Nicolas Cordier lo sistemò con grazia nel 1608 e gli ideò un sostegno popolato di piccoli animali e di rettili descritti con la perfezione ossessiva di un giapponese dell'Ottocento. Altre mani l'hanno accarezzato: Algardi, Fancelli, Sibilla e così ha fatto non molto tempo fa Michel Cugnet salvando con discrezione la patina. C'è da sospirare davanti a questa malinconica lezione sulla vita: si osservi l'espressione rattristata del volto del Centauro che rammenta quella di Laocoonte; fu Winckelman a indicarlo con sottigliezza lirica. Quando si evoca la saggezza malinconica la mente va a Marco Aurelio: il grande busto che lo raffigura e quello compagno di Lucio Vero, contano fra i più nobili ritratti di Roma e tali sono stati considerati fin da quando vennero dissotterrati sulla Cassia nel pieno Seicento. Purtroppo, essendo così ammirati, furono fra le prime cose a lasciare Roma nel 1808. Il loro stato di conservazione è prodigioso e si vedono ancora quelle concrezioni dendritiche che indicano il contatto secolare con la terra. La mestizia quasi religiosa di Marco Aurelio e l'avvenenza e dignità di Lucio Vero sono rese alla perfezione; ecco un'opinione che cito, a rischio di essere pedante, come esempio di analisi e anche come invito a verificare di persona quanto riporto: «La novità, il gusto, l'intelligenza, la finezza dell'artefice, non può ammirarsi abbastanza né abbastanza conoscersi da chi non ha veduto questi incomparabili originali».
Quel che diventa ovvio attraverso questa rassegna è come il Cardinal Borghese sia uno dei maggiori collezionisti di tutti i tempi, toccato, si direbbe, da una fiammella che guidava ogni sua scelta. Non esiste marmo, quadro o bronzo a lui appartenuto che non abbia una sua particolare distinzione: sapeva indovinare l'artista giusto o almeno l'opera eccezionale di un artefice non eccelso. Il cardinale capiva l'eccezione guidato da un impulso particolare. Era un uomo ricco, potente, colto ma non era il solo ad avere queste qualità e la sua cultura non era forse troppo elevata né traboccante era il suo sapere. Il suo istinto, invece, andava dritto come una freccia, inconfondibile, anche in un'epoca che vide altri mecenati con doti forse maggiori delle sue, come il futuro Urbano VIII, Maffeo Barberini. Ma il gusto (adoperiamo la parola che tutti gli incerti temono di pronunciare) di Scipione Borghese era libero quanto elusivo. Fu lui fra i primi a volere a ogni costo dipinti del Caravaggio comprandoli, rubandoli (come fece con quelli appartenuti al Cavalier d'Arpino) o acquistandoli nonostante il Vaticano li avesse rifiutati (parlo della Madonna dei Pallafrenieri). Fu sempre lui a capire per primo un artista completamente diverso, il Bernini, al quale commissionò il suo più stupefacente capolavoro, l'Apollo e Dafne. Caravaggio-Bernini non è una miscela di facile comprensione: cupa e religiosa la notte del primo, pagano e solare il meriggio del secondo, comunque ambedue profondi e artefici magistrali, il recto e il verso di una stessa epoca. Fu Scipione a far dipingere a Guido Reni il sorgere dell'Aurora e del Sole in uno dei suoi palazzi, a raccogliere le più straordinarie antichità di Roma e a ordinare a Nicolas Cordier di sistemare quelle che apparivano incomplete. Almeno in due o tre occasioni lo scultore lorenese reinventa dei frammenti senza significato e li trasforma in opere memorabili. Non parlo tanto delle Tre Grazie, esercizio di stile dall'eleganza un po' algida, quanto del Moro e della Zingara, due straordinari mosaici tridimensionali formati con avanzi antichi di alabastro e di bigio intarsiati di altre pietre colorate in un caso e in bronzo patinato e dorato nell'altro. Nel Moro questa tarsia di pietre è condotta con una tale intelligenza che l'orlo della veste sembra muoversi come stoffa. Nel tardo Settecento queste opere bizzarre vennero installate nella Stanza Egizia che è per qualche settimana un tripudio di colori, un mausoleo faraonico. Fu dissepolta dal saggio di Pierre Arizzoli-Clementel di trent'anni fa col quale iniziò la disamina della villa nell'epoca di Don Marcantonio. Le ricerche successive hanno reso possibile correggere le derestaurazioni intraprese da grandissimi studiosi, come Jean Charbonneaux, purtroppo dotati di un modesto senso estetico e che non avevano esitato a ridurre a monconi opere per metà settecentesche. In altri casi la stessa sicurezza senza dubbi di un'epoca si dimostra benefica per quella successiva. Così i commissari di Napoleone non vollero i marmi del Bernini, dunque il classicismo barocco di Roma non toccava il cuore dei pedagoghi dell'Impero.
Non potrei allontanarmi oggi da Villa Borghese senza salutare Polimnia, musa della memoria e figlia di Mnemosine (ossia mente, ricordanza o rimembranza) a cui si attribuisce anche la taciturnità o il silenzio. Paradossalmente nessuno ricordava più il marmo della Memoria, un'opera per metà antica e per metà moderna, amata dai contemporanei quando nel 1780 Agostino Penna trasformò un frammento in un'opera d'arte, una felice evocazione dell'antichità.
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A partire da domani, la Galleria Borghese effettuerà delle aperture straordinarie:
il lunedì pomeriggio (dalle 13 alle 19) e
il venerdì e il sabato (fino alle ore 21) www.galleriaborghese.it

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