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L'informazione messa a nudo

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L'informazione messa a nudo

Quanti di noi hanno pensato che la Costa Concordia ribaltata su un fianco fosse più simile a un fotomontaggio che alla realtà? Le pagine dei giornali di tutto il mondo hanno titolato: "paura", "naufragio", "terrore", "crociera della morte", "come il Titanic". Qual è il rapporto fra le immagini diffuse dai media e la nostra reale esperienza del mondo? L'informazione è diventata una forma d'intrattenimento o è ancora un valido strumento di conoscenza? La mostra alla Fondazione Sandretto, a cura di Irene Calderoni, parte proprio da queste domande e offre uno spazio di riflessione sul nesso fra l'evento e la sua rappresentazione, un'analisi di quanto contino le immagini nel costruire la nostra consapevolezza del mondo. Il tema è spinoso e si sovrappone al confronto arte-realtà, includendo una riflessione sul ruolo dell'artista come produttore o osservatore, soprattutto da quando, con la globalizzazione, l'informazione è diventata un tema importante nelle pratiche artistiche e si è tentato a tutti i costi di appropriarsene per mostrarne i meccanismi occulti. Le tendenze sono almeno due: da una parte l'informazione funziona come una sorta di estremo readymade, una serie di dati da rielaborare e ridistribuire; dall'altra l'impulso archivistico, ovvero la volontà di fare informazione storica interattiva attraverso le immagini, porta gli artisti a sovrapporre oggetti e testi in installazioni complesse.
Nel caso Costa l'evento coincide perfettamente con il suo spettacolo, per questo assume un carattere di irrealtà e artificio come aveva teorizzato oltre trent'anni fa Jean Baudrillard, il massimo pensatore francese sulla teoria dei media. Viviamo in un mondo di iperrealtà, in cui le tecnologie comunicative forniscono esperienze più intense e coinvolgenti della vita di tutti i giorni.
Fra le sedici opere in mostra in "Front-Page 9/12" di Hans Peter Feldmann, siamo avvolti da quattro pareti rivestite dalle prime pagine di oltre 150 quotidiani di tutto il mondo pubblicati l'indomani dell'attacco alle torri gemelle. Uno spettacolo di orrore e panico che corrisponde alle fantasie più spinte sulla catastrofe perfetta, dove la virtualizzazione della realtà ha raggiunto il suo culmine, ma anche un modo di prendere coscienza delle diverse strategie di comunicazione del terrore, di rivalutare l'evento da un punto di vista storico, empatico o voyeuristico. Alessandro Gagliardo (il più giovane artista in mostra, nato nel 1983 a Paternò, Sicilia), invece, ci riporta nell'Italia della mafia, del clientelismo e della cultura soap, con un'opera che la Fondazione ha deciso di produrre per l'occasione: un palinsesto eclettico fatto di oltre centomila diapositive, proiezioni, still da video, stampe fotografiche raccolte durante le sue ricerche, in cui il tempo del racconto viene sostituito da quello immediato della cronaca, costruendo una visione dell'Italia attraverso la televisione, con tanto di camera ardente di Raimondo Vianello e videoclip creati sulle vite di diciottenni che vogliono fare della propria esistenza uno spettacolo sensazionale. Il polacco attivista Artur Zmjiewski (curatore della prossima Biennale di Berlino, in aprile) mette in onda venti eventi diversi, da manifestazioni di protesta sociale a gruppi di persone durante un evento sportivo, fino a rivisitazioni della storia polacca attraverso cui emerge una prolificazione di punti di vista totalmente diversi sull'idea di democrazia e identità che mettono in crisi il modello documentaristico con cui è costruito il lavoro. L'approccio decostruttivo è anche quello adottato dai Black Audio Film Collective (attivi a Londra negli anni Ottanta e Novanta) che, in un documentario sperimentale commissionato dalla televisione britannica sulle rivolte della comunità nera di Londra nel 1985, mescolano riprese dal vivo, spezzoni dei media, interviste ai protagonisti e immagini d'archivio sulla storia dell'immigrazione, ridando complessità al racconto e lasciando lo spettatore libero nella propria interpretazione dei fatti. Hanno davvero anticipato l'era del «manda la tua foto e la tua testimonianza», come ci mostra il video del torinese Alessandro Quaranta, girato al Cairo nella primavera del 2010. Filma una folla di egiziani che con i loro telefonini riprendono un'immagine fuori scena, qualcosa che non possiamo vedere ma che inevitabilmente sposta il fulcro della notizia dalla rivolta alle sue modalità di rappresentazione.
L'immagine non ha nemmeno più bisogno dei reporter e dei cronisti perché è prodotta in tempo reale dagli stessi attori della rivolta. In un video cult Pierre Huyghe monta la vicenda di un rapinatore ripreso in diretta dai media e poi oggetto di un film interpretato da Al Pacino con il ricordo che trent'anni dopo il rapinatore uscito di prigione ne conserva. Veniamo così a scoprire che gli è impossibile reinterpretare oggettivamente la vicenda se non imitando la versione cinematografica, come se la sua stessa identità sia stata assorbita dalla dimensione dello spettacolo. Proprio agli artisti quindi sembra rimasto il compito di costruire un tempo dilatato in cui realtà, memoria e rappresentazione si mescolano per arrivare a un terzo significato, quello in cui, se anche priva di un referente reale, l'arte mantiene la sua capacità di giudizio sulla realtà.
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Press Play. L'arte e i mezzi d'informazione, a cura di
Irene Calderoni, Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo,
dal 2 febbraio al 6 maggio

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