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Antichità di guerra a Oriente

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Antichità di guerra a Oriente

Tra le archeologie del pianeta quella orientale è quella che, sciaguratissimamente, più ha sofferto dei condizionamenti politici in una tanto angosciante quanto intollerabile varietà di modi. Nei decenni scorsi, non solo il mondo scientifico ma il pubblico non soltanto dell'Occidente ha assistito attonito, durante la guerra civile in Libano e la guerra anglo-americana in Iraq, alla cancellazione di un importante centro antico come Kumidi e agli spietati saccheggi in profondità di siti storici fondamentali, come alcune delle capitali del Sumer e della Babilonia, quali Umma e Isin, per fare solo due esempi. Quartieri militari dei nostri giorni eretti a Tiro, a Babilonia, a Kish fanno orrore, come se un comando americano si fosse insediato sul Palatino durante la Liberazione. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbero stati perfino violati da bande organizzate, con gravi danni e perdite di importanti tesori archeologici, i musei di Baghdad e, pochi mesi fa, perfino del Cairo.
Questi recenti sono fatti di incredibile gravità che si pensava non potessero mai accadere, ma come meravigliarsi se l'Egittologia, di fatto, è nata nel 1798 con la spedizione di Napoleone, non ancora imperatore, in Egitto e i primi dati scientifici sulla Fenicia sono emersi dagli scavi al seguito della spedizione militare di Napoleone III, imperatore, in Libano per soccorrere le popolazioni cristiane? E i primi scavi in Mesopotamia che portarono al Louvre e al Museo Britannico inestimabili tesori artistici ed epigrafici d'Assiria non furono effettuati tra il 1842 e il 1845 a Nimrud, a Khorsabad e a Ninive da due consoli delle potenze imperiali di Parigi e di Londra a Mossul nell'Iraq settentrionale? E le epiche esplorazioni sistematiche germaniche di Babilonia e di Assur, agli inizi del Novecento non avvennero forse perché il Sultano della Sublime Porta aveva fatto grazioso omaggio all'imperatore di Germania dei siti stessi di quelle due città simbolo della civiltà della Valle dei Due Fiumi? E ancora, dopo le sventurate delibere di Versailles delle potenze europee vincitrici della Prima guerra mondiale che fissarono i tragici destini delle spoglie dell'Impero Ottomano nel peggiore dei modi contro le aspettative dei protagonisti della Rivolta araba del deserto, non furono i Paesi titolari dei mandati, Francia e Gran Bretagna, rispettivamente in Libano e Siria e in Palestina e Iraq, a trarre il massimo frutto archeologico con gli scavi sensazionali di Biblo, di Ugarit, di Mari, di Lakish, di Samaria, di Ninive, di Kish e soprattutto di Ur, l'unica scoperta in Mesopotamia che possa rivaleggiare con quella leggendaria della tomba di Tutankhamon?
Ideologie politiche, e in particolare la dottrina sionista, hanno fatto sì che la Palestina divenisse, tra il primo e il secondo conflitto mondiale, la regione con la massima concentrazione di scavi archeologici del pianeta, «perché bastava infilare un cucchiaino nel suolo palestinese per avere le prove del diritto di Israele alla sua terra», come affermava Golda Meir, nella prospettiva di «una terra senza un popolo per un popolo senza una terra». Saddam Hussein promosse la rinascita e la conservazione di Babilonia, dove costruì addirittura una sua residenza, perché voleva apparire l'erede del saggio ma ambizioso Hammurabi e la reincarnazione di Nabucodonosor II, il grande ultimo sovrano di Babilonia che rase al suolo il tempio e le mura di Gerusalemme. Solo Kemal Atatürk, il lungimirante padre della Turchia moderna, ebbe l'illuminata idea di affermare con decisione che tutte le civiltà, numerose e diverse, che si erano avvicendate sul territorio della Turchia, erano tutte indistintamente patrimonio ed eredità del Paese, esibendo questa moderna concezione nel nome stesso della sua maggiore struttura espositiva, il Museo, appunto, «delle Civiltà Anatoliche» di Ankara.
Depredazioni selvagge e spesso ormai organizzate da centrali del traffico internazionale di antichità a vantaggio di collezionisti privati o musei pubblici privi di scrupoli, esplorazioni di scavo orientate per rispondere in modo scientificamente inammissibile a esigenze politiche per cui si privilegiano alcuni periodi del passato rispetto ad altri, vandalismi rivoltanti nei confronti di musei ricolmi di testimonianze uniche della storia dell'umanità che sono veri santuari del progresso delle civiltà sono attentati inaccettabili alla dignità della cultura, alla libertà della ricerca e al patrimonio universale dell'umanità.
Mentre si rincorrono, da ultimo, notizie, di nuovo drammatiche, su asportazioni di antichità a Palmira e trafugamenti dal museo di Hamah, comunicate da fonti ufficiali, nella martoriata Siria percorsa da una crisi che, anche per interventi militari diversi, sta divenendo sempre più chiaramente lo scenario della tragedia di un popolo alle soglie di una guerra civile, le testimonianze del passato sono sempre più a rischio dovunque il controllo del territorio si attenua. Ciò che rischia di perdersi per sempre non sono testimonianze della storia di un Paese o dell'altro (ciò che comunque sarebbe una grave sventura), ma qualcosa che, per così dire, è solo affidato pro tempore alle cure di un Paese o dell'altro, ma che in realtà, secondo la corretta concezione dell'Unesco, è proprietà inalienabile dell'intera umanità, ciò che è specificamente tipico del «bene culturale».
E questo è, nella maniera più risoluta e ferma, intollerabile e inammissibile.
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