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Progettare nell'era della finanza

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Progettare nell'era della finanza

A chi fosse intenzionato a visitare al Mart di Rovereto la mostra londinese «PostModernismo. Stile e sovversione 1970- 1990» (inaugurazione 25 febbraio) consigliamo caldamente la preventiva lettura di quest'ultimo libro di Vittorio Gregotti, esito finale di un lucido racconto sullo stato dell'architettura del XXI secolo, avviato nel 2006 con L'architettura nell'epoca dell'incessante e amplificato nel 2008 con l'accorato pamphlet Contro la fine dell'architettura.
E questo non solo perché una delle parti centrali del libro – Trent'anni di postmoderno – è appunto dedicato all'analisi delle strategie che hanno cambiato radicalmente lo statuto (forse persino il senso) dell'arte del costruire, ma perché il titolo – Incertezze e Simulazioni – sembra un ricalco (o forse un dialogo postumo) del famoso Simulacri e impostura con cui nel 1980 Jean Baudrillard sintetizzò la sua disincantata lettura dell'«effetto simulazione» nell'uso sociale della rappresentazione della società postmoderna.
La tesi è nota e la diagnosi impietosa: «L'architettura forse più di altre pratiche artistiche ha subito le conseguenze del dominio assoluto della finanza e del consumo in quanto valori e, proprio sottoponendosi a essi, ha conquistato, nei nostri giorni, anche una più ampia popolarità». Dedicandosi a una rappresentazione dello stato delle cose al limite del cinico ricalco, l'architettura ha così dismesso ogni velleità di trasformazione, snaturando la natura del progetto (che è sempre prefigurazione di un avanzamento) grazie al ricorso a costanti pratiche di «simulazioni che coprono le incertezze sul futuro per mezzo dell'atto estetico».
L'arte come alibi e la comunicazione come surrogato della rappresentazione hanno dunque alimentato il mito della creatività come risoluzione istantanea della crisi e persino la riflessione è stata soppiantata dalla celebrazione dell'«evento», l'orrendo neologismo mutuato dal mondo dei promoter pubblicitari e accettato anche dai progettisti come testimonianza della loro aderenza alla modernità. O alla Post modernità, appunto, che, a partire dagli anni Settanta, ha assunto il modello della comunicazione mediatica come prova quasi dell'inesistenza del reale e dell'esperienza. Ora che questi però si stanno prendendo la rivincita reclamando il tema dei bisogni in un'oligarchia dominata dall'astrazione del capitale finanziario, il solitario atto di resistenza può diventare il manifesto di una più ampia e condivisa aggregazione: quella di chi "non ci sta" e davanti allo svaporare del sogno postmoderno si rimbocca le maniche per erigere ripari .
E qui sta anche la parte più viva del saggio di Gregotti che negli ultimi capitoli scrive le prime lettere di un messaggio di realismo e di speranza: «Forse bisognerebbe guardare alla produzione di architettura non solo combattendo contro le sue simulazioni mercantili, ma anche sospendendo provvisoriamente ogni giudizio critico sulle ideologie, per guardare ai frammenti che di essa sono recuperabili». L'ultimo dei Mohicani si ritrova dunque parte della tribù degli eredi del moderno («forse in via d'estinzione, ma che comprende la maggior parte dei migliori architetti di quest'ultimo quarantennio») e la critica alla modernità è il punto di partenza per un'assunzione di responsabilità capace di riportare la barra del progetto fuori delle secche del destino. Di riportalo insomma, come diceva Edoardo Persico, alla sua «sostanza di cose attese e sperate».
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Vittorio Gregotti, Incertezze e Simulazioni. Architettura tra moderno e contemporaneo, Skira Editore, Milano, pagg. 86, € 14,00

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