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Testori, zio irresistibile

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Testori, zio irresistibile

«I miei primi ricordi di Giovanni Testori? Ero bambino, lo ricordo arrivare ogni domenica pomeriggio dai nonni, a Novate (eravamo almeno 30 persone, di tre generazioni), con un vassoio di paste talmente grande da non passare per la porta»: Giuseppe Frangi, giornalista, direttore del settimanale «Vita», è il primogenito di Lucia, sorella di Testori. I suoi fratelli sono Giovanni, il pittore, e Francesco, lo storico dell'arte: tutti hanno ricevuto un imprinting indelebile da quello zio geniale e appassionato, carismatico e affettuoso, scegliendo (ma senza alcuna pressione da parte sua) vie che lui, critico e storico dell'arte, scrittore e pittore, oltreché uomo di teatro, aveva già battuto. Di tutti però è Giuseppe il nipote che gli è stato più vicino, avendo vissuto per molti anni con lui sin dal 1971 quando Testori, travolto dalla sua prodigalità e piombato in un grave esaurimento nervoso, tornò a Novate dalla madre: «Io, in piena rivolta adolescenziale, mi ero trasferito dalla nonna. Un giorno lo vedemmo arrivare, sconvolto, con la sua immensa biblioteca al seguito, caotica come tutta la sua vita. Fui io a riordinargliela e da allora ebbi la fortuna di passare tanto tempo con lui (gli facevo anche da autista). Si sfogliava insieme un libro, si commentava l'ultimo quadro acquistato – e ce n'era sempre uno nuovo – oppure si andava per antiquari, in cerca di quadri per la sua collezione. Lì fui investito di un compito ingrato: Testori aveva un occhio prodigioso e gli antiquari lo sapevano. Seguivano il suo sguardo e se si soffermava un po' più a lungo su un dipinto, alzavano il prezzo all'istante. Lui ne era consapevole e li guardava velocemente; solo con alcuni, che gli piacevano di più, si produceva in una breve sceneggiata, sputandoci su, strofinandoli con la manica della giacca e infine sentenziando: «Ma è una schifezza!». Poi mi istruiva e il giorno dopo toccava a me andare a concludere l'affare. Io, diciottenne, avevo sempre timore di sbagliare».
Comprensibile, visto che Testori era uomo di grandi collere: nel 1949, dopo che fu costretto a cancellare, perché troppo "picassiani", gli Evangelisti da lui dipinti sulla cupola minore di San Carlo al Corso a Milano, andò nello studio di via Santa Marta e bruciò tutti i suoi quadri. Non meno burrascosi erano i rapporti umani: con l'amico Luchino Visconti, che nel 1960 aveva tratto il soggetto di Rocco e i suoi fratelli dal suo Il ponte della Ghisolfa e che mise in scena l'Arialda (sequestrata a Milano perché giudicata «da suburra») e la Monaca di Monza, avrebbe litigato tanto furiosamente «da scrivere un'invettiva in versi contro di lui, rimasta inedita. Ma se ne pentì e gli dedicò una piccola, meravigliosa biografia, inedita anch'essa, da cui affiora tutta la sua ammirazione e tutta la loro diversità: lui non poteva certo condividere il tratto snobistico di Visconti».
Senza contare i sodalizi con gli artisti e con gli attori. Varlin innanzitutto, il pittore svizzero che viveva tra i monti di Bondo, dove Giuseppe Frangi lo accompagnò spesso: «Erano due personaggi estrosi, estremi, anarchici. Varlin, che si chiamava Willy Guggenheim, aveva addirittura preso il nome di un anarchico morto nella Comune di Parigi. Ma erano anche spassosi: ricordo Varlin che parlava un italiano storpiato, improbabile, e mio zio che lo imitava. Indimenticabile». E così sarebbe stato con Franco Parenti: «Lo vedemmo la prima volta insieme, nel 1971. Recitava il Ruzante e, finito lo spettacolo, Testori scese in camerino e gli disse che voleva fare qualcosa con lui. Tempo pochi mesi e aveva scritto l'Ambleto, in una lingua del tutto inventata, alla Ruzante. Ma era un testo ostico alla sinistra come ai conservatori e trovarono tutte le porte chiuse. Così fondarono il teatro Pier Lombardo, in quello che era stato un cinema porno, e la Compagnia degli Scarrozzanti. Ebbero un tale successo che l'uno e l'altra diventarono punti fermi della vita culturale milanese».
Sarebbe però profondamente sbagliato, avverte Frangi, ridurre la figura di Testori a questa dimensione «barocca», di genio esagerato, eccessivo: «L'ho capito quando ho conosciuto Giovanni Agosti, che pure non l'aveva mai incontrato: fu lui a farmi notare che in realtà mio zio era in primo luogo un "figlio" di Adriano Olivetti, di quella sua cultura fatta di rigore, disciplina e volontà pedagogica. Olivetti fu il committente del suo primo grande libro: su suggerimento di Roberto Longhi gli affidò lo studio del tramezzo affrescato da Martino Spanzotti nella chiesa di San Bernardino, inclusa nell'area degli stabilimenti Olivetti. Testori scrisse un testo straordinario, di critica e teatro insieme. E quell'esperienza si tradusse in metodo, perché quando si va sul campo bisogna essere precisi, sistematici, meticolosi. Bisogna saper indagare il territorio, valorizzarlo, trovarne l'accento specifico e, senza snaturarlo, portarlo a una dimensione globale. Di qui discesero le indagini a Varallo, con Gaudenzio Ferrari e Tanzio; a Pisogne con Romanino, a Cerveno con Beniamino Simoni... E quando con l'Associazione Giovanni Testori [presieduta da Giuseppe Frangi e diretta da Davide Dall'Ombra, ndr avviammo la serie delle mostre «Testoria» per verificare che cosa restasse dei suoi studi in quei territori, scoprimmo che la rete di rapporti che aveva costruito con gli abitanti era ancora viva dopo tanti anni. Perciò sono contento che a Ravenna Claudio Spadoni, con l'appoggio di Alain Toubas, l'erede di Testori, abbia fatto un lavoro rigoroso, che va oltre l'immagine del genio estroso e furioso; perché ridurlo a questa dimensione significherebbe fraintenderne totalmente la figura».
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mostra a ravenna
Il mondo pittorico testoriano
Dopo Roberto Longhi, Francesco Arcangeli e Corrado Ricci, Claudio Spadoni mette ora in scena a Ravenna l'avventura di Giovanni Testori (1923-1993), in una rassegna impeccabile e avvincente che, seguendone passo passo gli studi, si dipana lungo cinque secoli d'arte, dall'ultimo '400 di Vincenzo Foppa ai "Nuovi selvaggi" tedeschi di fine '900.
Fra i due estremi entrano in gioco tutte le sue passioni di studioso, accomunate dalla tenace fedeltà alla "pittura di realtà", così radicata nella tradizione visiva (e antropologica) delle terre lombardo-piemontesi di cui Testori è stato, sulle orme del "maestro indiretto" Roberto Longhi, il conoscitore e il divulgatore più appassionato. Dopo il turbinoso, immenso ritratto a Testori di Varlin, ecco allora gli autori studiati da giovanissimo (Matisse, Manzù, Scipione...) e subito Gaudenzio Ferrari e Tanzio, i maestri del "gran teatro montano" del Sacro Monte di Varallo, con i bergamaschi e bresciani Romanino, Moretto, Moroni. Poi i "pestanti" (Cerano, Morazzone, G.C. Procaccini, Daniele Crespi...), fino a Fra' Galgario e Giacomo Ceruti. Di qui il percorso procede attraverso il realismo francese dell'800 e gli autori prediletti del '900, per chiudersi con la parata dei capolavori dei suoi "grandi amori": il Caravaggio di Roberto Longhi e l'Erodiade di Vicenza di Francesco Cairo -oggetto del suo primo scritto sul longhiano "Paragone", nel 1952-, fino a Giacometti e Bacon e all'amico di una vita, Ennio Morlotti, con le sue grandiose Bagnanti.
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Caravaggio, Courbet, Giacometti, Bacon. Miseria e splendore della carne. Testori e la grande pittura europea,
Ravenna, Mar, fino al 17 giugno. Catalogo Silvana
www.museocitta.ra.it

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