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Al Moma la Sherman si fa in mille

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In Primo Piano

Al Moma la Sherman si fa in mille

Da oltre trent'anni si affaccenda in un lavoro interminabile e quasi maniacale, per cui fa da fotografa, modella, truccatrice, parrucchiera, stylist, scenografa.
Chi è la vera Cindy Sherman? Ci accoglie senza paura all'ultimo piano del MOMA, dedicato alle esposizioni temporanee, un olimpo riservato a pochi che sono già scritti nei libri di storia e si trovano davanti il difficile compito di allestire una retrospettiva ancora in vita.
Dalla metà degli anni Settanta ha modificato instancabilmente il suo corpo, servendosi di protesi, trucco pesante, feticci, parrucche, creando scene dubbie e intriganti di cui è protagonista e regista insieme. Una passione per il travestimento e le maschere che la accompagna dall'adolescenza, quando si divertiva a vestirsi da vecchietta, da uomo o da mostro, nel gioco costante di essere qualcosa di diverso da sé.
Nata nel 1954 in New Jersey e cresciuta a Long Island, fa parte della prima generazione cresciuta a televisione, dove si affacciano il mito della bellezza, il culto del corpo e dell'immagine. Così la sua, più che una ricerca della propria identità, è un'analisi sulla natura della rappresentazione e sui suoi meccanismi di messa in scena. Nei primi lavori, immagini sequenziali ritagliate a mano e incollate una accanto all'altra o incorniciate singolarmente, mette a nudo il processo di trasformazione da ragazza normale "occhiali e camicia" alla vamp fumatrice e vogliosa, oppure la donna è una bambola da vestire in un gioco di trasformismo potenzialmente infinito. Poi inizia la serie dei film still, finti fermo immagine 20x25 cm venduti per 25 dollari, in cui interpreta tutti gli stereotipi dell'immaginario cinematografico degli anni Cinquanta e Sessanta: la donna in carriera, la casalinga, la seduttrice. Imita le grandi come Anna Magnani, Brigitte Bardot, Sophia Loren, Monica Vitti, su set costruiti meticolosamente. Ci mostra come l'identità e la rappresentazione non dipendono solo dalle pose, dai gesti o le espressioni, ma da ciò che costruisce la scena: oggetti, vestiti, luci, location, campo visivo. Sembra di poter riconoscere le scene drammatiche, di amore e horror dei capolavori di Michelangelo Antonioni o Alfred Hitchcock, e invece Cindy Sherman dichiara che non si è mai ispirata a nessun film in particolare, ma ha ricalcato una serie di clichés che mostrano le molteplici identità che il cinema ha dato alla donna. Come copie prive dell'originale. Vestiti, capelli, trucco, tutto rimanda a una relazione complessa col femminismo, così come alle questioni sociali, di genere o di razza, tutti temi che esplodono con violenza nella società americana di quegli anni. Prosegue con la serie dedicata alle donne terrorizzate, tristi e melanconiche che esprimono solitudine e giacciono per lo più supine in uno stato di rêverie, come se a emergere non fosse più l'esteriorità dei fatti del mondo ma l'intimità dello sguardo. Erano progettate per essere inserite in doppia pagina al centro di Artforum, e il loro formato orizzontale rimanda allo standard fotografico delle riviste patinate e allo sguardo dall'alto verso il basso a cui sono sottoposte le donne.
Negli anni Novanta compaiono i ritratti storici, qui allestiti come un'antica quadreria, uno sull'altro su una parete rosso scuro. Sono immagini di grande formato nelle pose della ritrattistica classica, mezzo busto, di fronte o di profilo e raffigurano Madonne con bambino, personaggi della Rivoluzione francese, nutrici, cortigiane e uomini di scienza che si ispirano ai Maestri del Rinascimento, Barocco e Neoclassico e, con una dovizia di particolari non trascurabili, ricopiano capolavori come la Fornarina di Raffaello, il Bacco del Caravaggio, o Giuditta con la testa di Oloferne liberamente reinterpretata. Al limite tra la parodia e il grottesco, così come è anche la serie che si rifà alle star di Hollywood, o i ritratti delle donne di potere ambientati a New York, con i fantasmi, bellezza perfetta, glamour, potere. Fasciate nei loro vistosissimi abiti di seta lucida, filo di perle e unghie laccate, contrastano con il trucco pesante che enfatizza ritocchi, botox e rughe ormai invadenti. Fino agli ultimi lavori che raggiungono la dimensione immersiva e diventano carte da parati, sfondi pastorali alla maniera della toile de jouy su cui la Sherman si staglia netta, travestita da matrioska, donna uccello, guerriera messicana, cavaliere medievale. L'aria è triste e di palese incoerenza. Ma proprio qui diviene chiara la logica di tutto il suo corpus di opere, quel passaggio delicato dalle costruzioni contraddittorie, in cui gli elementi posticci sono immediatamente percepibili, al racconto doppio o mise en abîme. Siamo in grado di riconoscere che stiamo assistendo a una storia che alla fine ci conduce a un livello di comprensione maggiore dell'identità dell'autore come della nostra dove la Sherman continua a dirci «niente è più reale di ciò che vediamo».
Nel discorso postmoderno sulla rappresentazione dell'immagine la Sherman ci propone una condizione che la nega come autrice in senso classico, ma le ridà autorialità nell'interpretazione della realtà, o del peso che le immagini hanno oggi nella costruzione del nostro ambiente sociale.
La vera Cindy Sherman non esiste ma esistono i mille caratteri che impersona, ricordandoci quanto complicata è la relazione tra identità e rappresentazione che ci dà il senso del mondo esterno e di noi stessi. Le sue fotografie ci parlano non solo del nostro desiderio di trasformare o essere trasformati, ma anche del sogno che, per una volta ancora, a produrre il cambiamento sia l'arte o l'artifizio.
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Cindy Sherman, New York,
Museum of Modern Art.
Fino all'11 giugno

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