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Bramantino povero ma bello

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Bramantino povero ma bello

Quando, nel luglio scorso, l'assessore alla Cultura di Milano Stefano Boeri ci ha usato la grande cortesia d'interpellarci sul tema di una mostra da allestire in questa primavera a Milano, non abbiamo esitato a dichiararci per la soluzione più semplice. Proporre cioè alla lettura del pubblico un brano meno noto, ma ben scelto, della vicenda dell'arte lombarda. Un brano che fosse vigorosamente «regionale» senza essere provinciale; un brano che potesse andare in scena dignitosamente anche in tempi di crisi economica. Non che un poco di risorse in più avrebbe nuociuto alla mostra, anzi: si sarebbe così tentato di convocare a Milano il Filemone e Bauci da Colonia o l'Adorazione dei Magi da Londra, il Cristo lunare da Madrid o il Compianto da Bucarest; tutti dipinti che, per le loro dimensioni, avrebbero potuto – in linea di principio – affrontare lo stress di un viaggio per raggiungere il luogo dove cinquecento anni fa erano stati eseguiti. Ed essere presentati, per la prima volta, accanto ai loro compagni. La scelta era infatti caduta, senza esitazioni di sorta, su Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, genio numero uno dell'arte lombarda del Rinascimento. Un artista che fin qui, nonostante le predilezioni, anche militanti, che molto del migliore Novecento gli ha riservato, non ha ancora goduto il piacere e il vantaggio di un'esposizione monografica a lui interamente dedicata e per di più nella città dove ha lavorato per quasi tutta la sua esistenza. Non che siano mancati in passato i tentativi di mandare in porto un'operazione del genere, auspicata già fin dal 1952 da Roberto Longhi, come a dire dal massimo storico dell'arte del secolo passato, che proprio a Milano, alle mostre di Milano aveva dedicato una parte consistente delle energie civili della sua avanzata maturità. Quando Palazzo Reale era – come scriveva Giovanni Testori – «invidiatissimo, invidiatissimo da ogni angolo del mondo».
Eppure, anche in un momento così difficile come quello che stiamo attraversando, è possibile un'esposizione sul Bramantino, che riesca a dare conto – con le sole risorse locali – della statura dell'artista e a farlo annettere, così ci auguriamo, al menu, sempre più ristretto, delle predilezioni diffuse, che rischiano altrimenti di arenarsi tra le scogliere degli impressionisti e il maledettismo del Caravaggio (una nemesi per Longhi che aveva posto, a ragione, queste esperienze figurative tra i vertici dell'arte di tutti i tempi). Infatti gran parte delle opere del Bramantino si conservano a Milano, divise tra istituzioni diverse, che pur le annoverano tra i capolavori delle loro raccolte; per altri artisti una soluzione del genere non sarebbe stata applicabile; difficile che un Raffaello a Milano o un Tiziano a Milano possano dare conto del peso effettivo di quegli autori, dello sviluppo delle loro carriere: in altri casi, e per fortuna, il modello qui sperimentato ci pare replicabile. Infatti il progetto che sta dietro a questa mostra è volto anche a verificare la possibilità che le raccolte della città, non escluso il buon collezionismo privato, scoprano o riscoprano la volontà di collaborare tra loro per un fine comune: un incremento di conoscenza, percorsa persino da brividi di piacere, che dia vita a una crescita civile. Per questo la mostra si rivolge al grande pubblico, secondo forme nuove di partecipazione: non intendendo i visitatori come clienti, da cui ottenere i soldi del biglietto o a cui vendere magneti e magliette, ma come cittadini – in primis, persone – a cui sono offerti strumenti di formazione e comprensione. E sono offerti gratuitamente, riprendendo una vecchia consuetudine del Comune di Milano, di cui chi scrive ha molto approfittato in gioventù. Quando gli enti pubblici erano produttori in proprio di cultura, senza forme di mediazione esterne, attingendo unicamente a chi era in forza nei ranghi dell'amministrazione e chiedendo il contributo disinteressato di studiosi di provata competenza. La gratuità sembra oggi diventata invece una serie B del consumo culturale: come se una manifestazione offerta a tutti fosse di per sé di scarso rilievo. Conoscendo meglio ciò che ci circonda, si procede a una messa in luce delle proprie ragioni espressive, si entra in possesso di strumenti di autocoscienza culturale, si riducono i margini di passività: in maniera adulta e capace si è in grado di esprimere il proprio, personale, punto di vista sulle cose e sulla storia. Speriamo che il gesto non suoni pateticamente retrospettivo, come a molti – non solo a Milano – farebbe piacere (o comodo).
Che i dipinti e i disegni del Bramantino si dovessero riunire al Castello Sforzesco era fuori di dubbio fin dal principio dell'impresa: tra le mura inespugnabili della Rocchetta, nella Sala del Tesoro, l'artista ha dipinto per Ludovico il Moro il gigantesco murale con Argo, il mitico guardiano costretto a vegliare – con le sue forme possenti – le ricchezze del tesoro sforzesco. Questo affresco, uno dei capolavori dell'arte europea intorno al 1490, è naturalmente inamovibile e ben poco noto fuori dalla cerchia degli specialisti: si trova infatti in una sala della Biblioteca Trivulziana che, per quanto dedicata alle esposizioni, non fa parte del percorso di visita più consueto ai frequentatori del Castello di Milano. Proprio sotto l'Argo, in una sala pesantemente carica di segni della storia (anche di quella recente: dai sogni con i piedi per terra di Luca Beltrami agli equilibri formalisti, e non meno arbitrari, dei Bbpr), si è pensato di riunire i dipinti e i disegni del Bramantino. A Milano infatti la Pinacoteca di Brera, la Pinacoteca Ambrosiana e le raccolte civiche conservano il nucleo più grande al mondo di opere di questo artista, il cui catalogo è veramente ristretto, non raggiungendo nemmeno – grafica inclusa – che poche decine di unità. Tra i pezzi più preziosi ci sono i dodici arazzi con i Mesi, tessuti da Benedetto da Milano e dai suoi collaboratori su cartoni del Bramantino, che il Comune di Milano ha acquistato nel 1935 da Luigi Alberico Trivulzio e che costituiscono uno dei vanti, spesso ignorati, del patrimonio pubblico cittadino: in quest'occasione saranno ripresentati nella Sala della Balla – soprastante alla Sala del Tesoro – secondo nuove modalità, che permetteranno di meglio comprendere il significato di questo ciclo con ben pochi paralleli, per fedeltà al reale e bizzarria d'invenzioni, nella tradizione figurativa italiana. Se apprezzata, questa soluzione espositiva sarà un lascito concreto alla città. Per tutto questo ci è sembrato più onesto intitolare la mostra «Bramantino a Milano»: evidentemente non sono questi i tempi per un Bramantino tout court.
Riuscire a riunire questi dipinti e questi disegni è stato – chi l'avrebbe immaginato in partenza – notevolmente complicato. Per fortuna è prevalso, nonostante i tempi e le cattive abitudini, un senso di solidarietà civica, per cui le istituzioni hanno alla fine compreso le intenzioni del progetto, morali prima ancora che scientifiche. Speriamo tutto questo suoni come test, come prova generale per imprese più vaste e complesse, all'altezza di quello che è stato il paesaggio culturale della città, delle sue remote tradizioni espositive che l'hanno vista – in anni neanche troppo lontani – all'avanguardia critica per rigore di analisi, varietà di riscoperte, rigore di sintesi. La strada che si era avviata con il miracolo del Caravaggio nel 1951 ed era arrivata, per tappe memorabili, fino al Seicento Lombardo nel 1973; ma della partita faranno ancora parte – era il 1982 – lo Zenale (al Poldi Pezzoli) e l'Hayez (felicemente diffuso per la città).
Il Bramantino del 2012 è stato costruito, in fretta e furia, in un paesaggio dominato dalle rovine come un segno di riscatto: la disponibilità dimostrata dai funzionari del Comune è stata tangibile, un moto d'orgoglio di cui speriamo il pubblico si avveda. In un momento difficile, senza soldi, si sono viste maniche rimboccate e il piacere, perfino il divertimento (nei più giovani), di sperimentare forme differenti di lavoro, di riprendere il filo di consuetudini dismesse, aggiornandole con strumentazioni prima neanche immaginabili.
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