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I colori degli anni Settanta

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I colori degli anni Settanta

I ragazzi portavano scarpe Clarcks e pantaloni Besozzi, loden blu se erano di destra o verde se erano di sinistra. Pioniera in tutto, la Milano degli anni Settanta viveva, prima in Italia, l'adesione a ciò che oggi chiamiamo look e brand. La speranza di non omologarsi sopravviveva ancora, portando a occupare fabbriche per farne centri sociali e ad aprire locali come il Macondo, dove ti davano un biglietto del tram con scritto «vale uno spinello»; gli intellettuali creavano riviste come «Alfabeta» e librerie come Utopia, mentre le fabbriche di Lambrate e del Giambellino non sapevano di vivere gli ultimi anni di sicurezze. L'agonia della sinistra si palesò in sussulti successivi: lo scioglimento di Lotta Continua, le manifestazioni rovinate da Autonomia Operaia e il fallimento del festival del Parco Lambro, dove si giocò a palla con i polli crudi scaricati dai camion del Comune. Una orgogliosa reazione si vide soprattutto nel teatro, che, stimolato ma oppresso da un eccesso di Strehler, vide arrivare proprio tutti, dal Living Theatre a Lucinda Childs e generò esperienze durevoli come il teatro dell'Elfo.
Ma nelle sedute di autocoscienza si era imparato che «il personale è politico» e da lì a pensare che la vita è quasi solo personale non ci fu che un gradino, favorito dal muoversi delle faglie geopolitiche internazionali. Alla fine del decennio era già pronto il lato buono di tutto questo, cioè il made in Italy che portò al mondo il nostro stile di vita incarnato in un misto di moda, cibo e casa, ovvero il corpo della persona come opposto a quello del collettivo. Il lato triste fu la fine dell'impegno e la preparazione al terreno che oggi si mangia l'ex capitale morale: culto del tempo libero opposto al gusto del lavoro, cattiva urbanizzazione, arrivo della criminalità organizzata, fine di quella civiltà dell'accoglienza che da sempre integrava l'immigrazione.
Gli anni Settanta a Milano non sono stati semplici. E non è semplice quindi interpretarli – come cerca di fare la mostra «Arte a Milano 1969-1980» aperta da giovedì a Palazzo Reale – osservandoli dal punto di vista delle arti visive. I fermenti e le ferite ancora aperte rendono forse sensato che i due curatori, Francesco Bonami e Paola Nicolin, non abbiano vissuto quell'atmosfera in prima persona: troppi i probabili amarcord, gli stessi che genereranno prevedibili malumori. La mostra ha il pregio di essere volutamente a chilometro zero, di guardare nel territorio, di impegnarsi in una ricerca d'identità dalle ricadute civili. Anche se, detto ciò e considerando che questo è uno dei primi passi nel settore della nuova amministrazione cittadina, nulla sembra davvero cambiato nella gestione degli spazi per l'arte contemporanea. Da trent'anni, ora come allora, niente concorsi né cessione di controllo da parte dell'assessorato. Nell'ampio novero di fotografie d'epoca esposte ce n'è una, quella di Germano Celant al Pac, che dovrebbe fare pensare: nessuno lo volle mai direttore. Che lo si ami o no, lui è finito al Guggenheim e il Pac nel purgatorio. C'è ancora tempo per cambiare rotta e la mostra stessa sembra un'indicazione a cercare il fermento e a invertire il declino iniziato proprio negli anni di cui si occupa.
Declino sì, del resto, ma bollente, come si addice a una città che aveva relazioni internazionali importanti: Lucio Fontana era morto nel 1968 ma aveva aiutato un'intera generazione. Il suo lascito si rintraccia nella mostra già all'ingresso, con le scale asimmetriche che Gianni Colombo aveva mutuato dal suo modo di concepire uno spazio disorientante; lo si ritrova poi attraverso i monocromi di Enrico Castellani, sopravvissuto al compagno di avventure Piero Manzoni e vicino a Vincenzo Agnetti. Alla sua intelligenza logica e surreale, all'altezza di molti maestri concettuali anglosassoni, dà giustizia una sala dedicata a un comizio virtuale, l'Amleto Politico. Nemmeno Luciano Fabro, l'unico poverista che operava a Milano, fu esente da quell'influsso.
Un altro generatore di relazioni era stato Arturo Schwarz, che negli anni Sessanta aveva spesso ospite nella sua galleria Marcel Duchamp. Fu anche e soprattutto conoscendo il maestro, giocando a scacchi con lui o scegliendo di non sfidarlo, che arrivarono alla maturità ragazzi molto diversi ma di comune matrice surrealista. Spicca tra i risultati il ready made travestito da scultura tradizionale, con un sapere filosofico immerso nella manualità, dell'italo-ucraino Alik Cavaliere. Anche Gianni Emilio Simonetti fece parte del gruppo benché in posizione ribelle; al suo genio laterale viene dedicata una stanza intera.
Parte del gruppo trasmigrò poi da Marconi, una delle prime gallerie del mondo a essere concepite come kunshalle bianche, grandi, in cui il pubblico vagava come in un museo mentre il Re Giorgio chiacchierava, in un ufficio pieno di oggetti di Man Ray, con Pardi, Tadini, Adami. Fu nel circolo di Marconi che decisero di portare a Milano Richard Hamilton e Louise Nevelson.
Altro giro fu quello di Franco Toselli, gallerista con il fiuto lungo e il fiato economico tormentato: ma a quel tempo era cosa condivisa e dovrebbe tranquillizzarci: si può fare cultura anche con pochi soldi. Già nel 1973 Toselli mostrò le foto di Gordon Matta-Clark con carotaggi di vecchi edifici e quell'anarchiettura che, insistendo sulla distruzione delle periferie urbane, mostrava a quale distruzione andava incontro il mondo del l'industria.
Un giro ancora diverso fu quello di Luciano Inga Pin, che portò nella sua galleria tutta l'arte del corpo, della performance cruenta o del travestimento intersessuale, con un giovane e bello Urs Luthi. Un ulteriore luogo in fermento fu la galleria di Salvatore Ala, dove si videro precocemente i migliori performer del mondo, da Merdith Monk a Simone Forti.
Grande spazio è dato a Daniel Spoerri e al Nouveau Réalisme, che aveva fatto la sua prima mostra negli anni Sessanta proprio a Milano, con il critico Pierre Restany sempre attento alla scena e il collezionista Gino Di Maggio capace di foraggiare. E con loro venne anche John Cage.
Molte le rivisitazioni che qui non si possono raccontare, come Vincenzo Ferrari, Claudio Costa, Pino Spagnulo. E una constatazione: uno sguardo agli anni Settanta comprova, se ancora ce ne fosse bisogno, la vocazione di Milano ad adagiarsi sui galleristi privati. Piccoli eroi interessati al denaro, certo, ma non solo e non sempre.
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Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980,
a cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin, fino al 2 settembre. Catalogo Mousse Publishing. Ingresso gratuito

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