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Cosa custodisce Arienti

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Cosa custodisce Arienti

Un continuo oscillare tra natura e artificio, abbandono e controllo, tensione e armonia. Fenix, lo spettacolo multimediale nato dalla collaborazione tra Foofwa d'Imobilité e Stefano Arienti è la combinazione perfetta di questi dualismi e sembra oscillare da un principio all'altro in un ciclo infinito dai molteplici significati. C'è il primo legato al complesso progetto che amplia la serie Arte contemporanea a Teatro, grazie alla quale la Fondazione Bevilacqua La Masa ha portato in Fenice artisti del calibro di Grazia Toderi, Kimsooja, William Kentridge, Rebecca Horn e Jana Sterback. Questa volta l'intervento dell'artista non si limita alla proiezione di un'opera video sul sipario frangifuoco del Teatro ma prevede un'interazione nello spettacolo, creando una vera e propria opera a quattro mani, un intervento che nasce dalla contaminazione tra danza e arte visiva. Il titolo omaggia la storia del Teatro con una serie di movimenti ciclici pensati sul l'idea di caduta e rinascita, ritmati da una musica decomposta e in parte creata in scena da un antico strumento a fiato cinese chiamato sheng, e dai vocalizzi dei danzatori che riproducono fonemi indoeuropei. Frédéric Gafner – in arte Foofwa d'Imobilité – che è stato il primo ballerino di Merce Cunningham e ha ballato con Pina Baush, non è certo nuovo all'interdisciplinarietà e ha lavorato con Arienti puntando a un progetto più aperto possibile, che contemplasse il modo di fare di entrambi. Si sono incontrati diverse volte quest'inverno, Foofwa inviava ad Arienti video con le prove della coreografia (rintracciabili su www.foofwa.com) e alla fine, su un canovaccio fatto di ritmi ripetuti e di movimenti che si rigenerano attraverso il contatto fra i danzatori, l'artista ha pensato il suo intervento scenografico manipolando digitalmente le immagini dei suoi dipinti in mostra. Su una scena nuda che cioè utilizza semplicemente il fondo del teatro per la proiezione, appaiono in sequenza tratti veloci quasi impressionisti, immagini arboree, puntinismi che assomigliano a cellule in riproduzione, fiori mutanti, tutto in colorazioni fredde che si armonizzano con la luce bianca usata per lo spettacolo. Sul palco i danzatori si muovono con la fluidità che caratterizza gli esseri aquatici nei costumi creati con stoffe disegnate dallo stesso Arienti. Di fattura leggera, riproducono pelli squamose e muovendosi sembrano allungarsi in branchie o assomigliare a sostanze gelatinose. I ritmi prodotti dal movimento si mischiano a arie d'opera, musica elettronica, cornamuse e canti popolari, tutti suoni prodotti dal fiato, dal respiro, dalla vita che sembra riprodursi in scena con movimenti sensuali e primitivi.
Se accettiamo di paragonare questa danza così fisica a un elemento naturale, a un'espressione di pura corporeità, le immagini di Arienti vi inseriscono non come una semplice scenografia ma come un'intersezione che aggiunge senso a quei movimenti, trasformandoli e suscitando un'impressione spaziale di profondità. Perché, se la natura utilizza il trucco di colorare gli animali come il suo ambiente, l'arte tende invece a rendere visibile. Così, svincolando la danza dall'accidenti del caso, l'artista sembra voler dare un ordine preciso all'insieme, una costellazione di immagini che creano una nuova configurazione per il mito della fenice.
Prima dell'inizio dello spettacolo Arienti ha composto una proiezione fatta da una serie numerosissima di cd provenienti da tutto il mondo, una raccolta personale che l'artista ha allargato negli anni. Domenico Modugno e Mina, flamenco, Flutes de Pan de la Brianza, chitarra hawaiana, canti birmani, thai classical music, canto gregoriano. La sequenza non ricomincia mai, dando un volto alla musica di tutto il mondo. Qui troviamo un concetto importante dell'opera di Arienti: la serie, intesa sia come principio ordinativo che come vita delle forme, con il loro ineludibile carattere di obsolescenza. Sono custodie vuote, residui silenti di una tradizione principalmente orale che soltanto nella storia occidentale si è cercato di fissare in sistemi di notazione come spartiti o supporti digitali, ma che con l'avvento delle tracce scaricabili dalla rete, si avviano velocemente alla scomparsa. Danno il titolo alla mostra alla Bevilacqua la Masa, tutta fondata sui rimandi con Fenix. Palazzetto Tito è, infatti, nelle parole dell'artista, il lato privato del progetto, un salotto in cui riprendere i temi dello spettacolo. Vi ritroviamo le custodie vuote, innumerevoli alcune con copertina altre trasparenti, tenute sui muri della sala centrale con un estenuante lavoro di aghi da cucito, sono divise per continente e con le loro plastiche luccicanti rifrangono la luce proveniente dalle finestre. In un'altra sala le carte dipinte svelano una dimensione pittorica dell'opera dell'artista tesa però, come un mantra, non tanto a mostrarsi quanto a curare, intrattenere, fare parte di un tutto, decorare. Provengono infatti dal corso che Arienti ha tenuto allo Iuav quest'anno, e sono state dipinte mentre discorreva con gli studenti. Sono appese tutte insieme come panni ad asciugare e svolazzerebbero anche, se in questi caldi giorni estivi ci fosse una bava di vento. Ci sono i libri sulla storia dell'Africa, e quelli sulla natura, sapientemente traforati per essere qualcosa di diverso da ciò che ci aspetteremmo. Su tutto campeggia un altro carattere dell'opera di Arienti, quello della manualità o del fare, in definitiva l'unico tipo di traduzione linguistica che nell'arte visiva non ha mai perso il suo appeal.
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Custodie Vuote. Mostra di Stefano Arienti, Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, fino al 30 settembre

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