ArtEconomy24

Le immagini da ascoltare

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

Le immagini da ascoltare

L'opera d'arte nasce nel cinema «solo grazie al montaggio», soleva dire Walter Benjamin, in cui «ogni singola componente è la riproduzione di uno svolgimento». Fotografia più tempo e azione.
La mostra centrata sul video appena aperta a Palazzo Grassi, intitolata «La voce delle immagini» e curata da Caroline Bourgeois, può essere presa come didascalia di asserzioni simili figlie degli anni Trenta, anche se le opere in mostra sono tutte datate al massimo dagli anni Novanta: cioè da quando gli artisti hanno avuto la possibilità di scegliere tra immagini analogiche o digitali. Film vuole dire letteralmente pellicola, ma i recenti lungometraggi pieni di effetti speciali ci hanno spiegato, se mai non lo si fosse capito ai tempi delle prime pellicole, che si può fare nel montaggio. E quanto all'ora, quali imponenti contagi siano in onda tra il vecchio "girato" e i programmi editing digitale.
L'esposizione sottolinea come dal tempo della pellicola in 35 mm, e poi del Superotto e del Portapak, stia emergendo per i registi una gamma di possibilità espressive che, spesso, è stata dapprima testata da artisti senza velleità di botteghino. Per quanto la formula del cinema da sala sia difficile da scalfire, si fa toccare da prove tecniche di trasmissione che al loro inizio possono stare solo nei musei e in quello che si definisce sovente "cinema esposto".
È ormai poco interessante definire i movimenti dell'arte contemporanea in base alle attitudini esecutive ed è per questo che l'espressione video-arte è obsoleta; ma è comunque importante mettere i puntini sulle i: spesso la perizia necessaria ai risultati di oggi viene sottovalutata perché non è quella tradizionale. Mostre come queste sono utili almeno perché provano come l'arte contemporanea non sia un mondo (solo) di cialtroni, ma (spesso) un laboratorio di pratiche innovative e complesse che poi vengono saccheggiate da altri fronti creativi. Ciò che compera ed espone François Pinault, il proprietario di Palazzo Grassi, diventa immediatamente un classico per il solo fatto di essere entrato in una collezione che stabilisce e afferma dei valori. Mettere alla berlina questo stato di fatto potrebbe essere facile e attraente. Negli impeccabili allestimenti che il collezionista fa realizzare a Venezia, però, c'è sempre da imparare e questa volta vediamo un bel saggio sull'evolversi dell'immagine in movimento, anche grazie agli innesti che continuano a provenire da pittura e scultura.
Le opere possono essere politiche, come nel caso dell'israeliana Yael Bartana o del cinese Cao Fei; esistenziali, come per il rumeno Mircea Cantor; violente come nel caso di Paul Chan o ironiche come quello degli svizzeri Fischli & Weiss. Ciò che dà loro carattere non è solo o non tanto una trama, quanto il modo con cui gli autori mettono insieme il loro puzzle. I pezzi possono non essere solo immagini: una categoria recente, quella di "cinema espanso", suggerisce di affiancare al video anche lo spazio e tutto ciò che dà luogo a un itinerario di stimoli: in questo è stato un pioniere indimenticabile, prima di esagerare un po' con il misticismo, quel Bill Viola (1951) del quale vediamo una galleria di volti i cui sospiri sono spenti da bende bianche sulla bocca.
Già all'ingresso, del resto, compare un'installazione ambientale che contiene uno schermo ma anche una sorta di ufficio, che prende senso dal contenuto del film che vi si proietta. È del belga Johan Grimonprez (1962), esaltato nella Documenta del 1997 e non lontano da Muntadas, che qui presenta una riflessione tridimensionale sulle strategie di comunicazione politica. Riprende modi e temi simili, anche se ancora più provocatori, la scultura sociale con video e monete del belga Michel François (1956).
Un'altra possibilità linguistica è l'assoluta semplicità del montaggio, così ridotto da portare l'attenzione sullo scandalo che l'immagine reca in sé: può trattarsi di un religioso mussulmano che suona il flauto con compostezza ispirata, completamente nudo, ritratto dall'algerino Adel Abdessemed (1971); oppure del vecchio che dorme su di una panca, nel duomo di Milano, che alla Biennale del 2001 fece scoprire l'albanese Anri Sala (1972). In entrambi i casi la camera è un occhio fermo, che testimonia senza enfasi una condizione al contempo di purezza e di scandalo sottolineata dall'uso del loop. Il vecchio leone Bruce Nauman (1940) ci sottopone la magia dell'immagine ripetuta in modo speculare: presenta For Beginners (all the combinations of the thumb and finger), un video del 2010 in cui due mani che contano con le dita, raddoppiate in modo simmetrico, evoca la complessità della relazione corpo-mente. L'idea del riflesso simmetrico viene ripresa anche nella vera camera oscura creata dall'americana Zoe Leonard (1961), l'unica che si ponga in un dialogo costante con le origini della fotografia, da un lato, e dall'altro con la città che scorre fuori.
La bellezza è un sapiente modo per presentarsi, diminuendo la paura insita in ogni nuovo incontro. È quello che dimostrano con i loro film due seduttori di lungo corso: l'iraniana Shirin Neshat (1957) e il cinese Yang Fudong (1971), la prima con campi lunghi in cui si muovono le altere figure di donne islamiche vestite di nero e il secondo capace di ipnotizzarci di fronte all'emotività di giovani stupefatti in primo piano. La narrazione è solo suggerita e non possiamo non ricordare come anche nel cinema-cinema la trama sia sempre più difficile da seguire, affidata com'è a tempi brevi e passaggi impliciti.
Le immagini possono essere montate in modo manuale o messe insieme da programmi al computer, lasciate vivere come fotografie in movimento, con una camera fissa e un soggetto unico, o composte da cambi di scena ritmati che ricordano quelli dei videoclip: i video maker che decidono di stare nel campo dell'arte visiva, diversamente da quelli che scelgono l'arena del cinema, non hanno l'ossessione della storia avvincente che scaccia la noia; hanno la possibilità di indugiare dentro il linguaggio del film, di essere lenti e analitici, di condensare uno stato d'animo o un'intera vicenda dentro a un granello di tempo. Ora vediamo queste attitudini in una mostra, ma aspettiamoci di averle intorno a noi con l'esplodere del montaggio in ogni senso e, soprattutto, in ogni schermo quotidiano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
La voce delle immagini, Venezia, Palazzo Grassi, François Pinault Foundation fino al 13 gennaio 2013

© Riproduzione riservata