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La casa dopo lo tsunami

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La casa dopo lo tsunami

L'11 marzo 2011 terremoto e tsunami colpirono il nordest del Giappone, scatenandosi con particolare intensità sulla costa pacifica di Honshu, lungo un'estensione di oltre 400 km. Per la comunità internazionale le notizie più gravi riguardarono il disastro della centrale di Fukoshima , ma in Giappone la catastrofe (con quasi 20mila vittime e la perdita delle case per più di 40mila persone) assunse subito un'ulteriore valenza: la necessità di ricostruire ma anche gli interrogativi su come e dove edificare.
Tra le località colpite, la città di Sendai, che dal 2000 ospita una delle architetture che hanno inaugurato il XXI secolo: la mediateca di Toyo Ito. Subito dopo la catastrofe, un video che mostrava le acque dello tsunami invadere tutto il primo piano di questo famosissimo edificio, fece il giro del mondo. Salvo qualche leggero danno, l'edificio però non subì gravi danni: ma per qualche tempo prima del restauro rimase ovviamente inagibile e la gente che per più di un decennio si era abituato ad usarlo come un informale punto di ritrovo, registrò il disagio di non avere più uno stabile punto di riferimento nella sua vita sociale. Per il suo autore, Toyo Ito, fu la spia di quanto un'opera radicata negli usi sociali possa essere importante per rinsaldare il senso di comunità e da questa constatazione nacque il progetto "Home for All" – una casa per tutti – che viene raccontato come un diario di bordo nel Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia. Un progetto – inutile dirlo – la cui attualità di caso studio esemplare è particolarmente evidente in Italia dopo lo stallo devastante seguito ai terremoti de L'Aquila e dell'Emilia Romagna.
All'inizio, il senso di sconfitta davanti alle devastanti forze della natura seminò dubbi e frustrazioni e la domanda posta da Ito ai suoi collaboratori si riassume nel titolo della mostra allestita a Venezia: «C'è, nonostante tutto, bisogno dell'architettura? Esiste qualche cosa che l'architettura possa fare? E, in definitiva, è l'architettura stessa possibile?».
La risposta è venuta un poco alla volta, stimolata dal grado di integrazione tra Ito, il gruppo di architetti che hanno lavorato con lui – Kumiko Inui, Akihisa Hirata e Sou Fujimoto – e le popolazioni della località di Rikuzentakata, che per circa un anno hanno partecipato attivamente a tutte le principali fasi di elaborazione del progetto. L'idea di Ito era quella di offrire uno spazio di incontro e distensione per tutti quelli che avevano perso la casa nello tusnami: uno spazio semplice, che non si risolvesse però solo in un interno, ma prevedesse un collegamento con l'esterno secondo la tradizione giapponese di creare delle gradazioni tra dentro e fuori utilizzando magari aggetti o piccoli porticati, e soprattutto di stabilire un costante legame visivo con l'ambiente circostante. Inneggiato spesso come un visionario della cultura digitale Toyo Ito ammette ora di sentirsi spinto a ripensare il rapporto dell'architettura con la natura, riportandola al cuore del progetto anche come forma di autocritica agli eccessi di una concezione troppo autoreferenziale e imperniata sull'onnipotenza della tecnologia. «All'inizio – spiega – il progetto era stato pensato ovviamente per risolvere una situazione locale, per alleviare il disagio degli abitanti di Rikuzentakata e aiutarli a mantenere saldo, pur nella devastazione , il forte legame di comunità. Poi ci siamo accorti che in realtà il progetto assumeva una serie di valenze più ampie che riguardano l'intero mondo dell'architettura e non solo il Giappone. A partire dall'epoca moderna, l'architettura è stata apprezzata soprattutto per la sua originalità. Di conseguenza, i temi primari – per chi e per quale ragione si costruisce – sono andati negletti. Un'area devastata, dove ogni cosa è perduta, offre l'opportunità perfetta per uno sguardo nuovo sull'essenza dell'architettura. Home for All può essere un piccolo edificio, ma pone la questione vitale della forma che l'architettura deve prendere nella nuova modernità e oltre».
Ad essere in discussione dunque è l'idea stessa di cosa sia ancora l'architettura; di come l'atto del progettare deve tener conto della crisi (non solo quella provocata dal disastro naturale, ma anche quella sociale ed economica) e di conseguenza ridefinire le sue strategie e i suoi fini, rimettendo in discussione pratiche consolidate e modi di fare abituali.
La Home for All non doveva dunque essere solo un costruzione ma un programma – se non proprio un manifesto – di un'architettura ricondotta al suo ruolo di strumento sociale. Questo non significa azzerare la figura creativa dell'architetto, ma al contrario conferire alla sua vitalità altri elementi di combustione. I modellini delle varie fasi di progettazioni esposti insieme ai tronchi di cedro portati dal Giappone, raccontano in maniera efficace e poetica i progressi del lavoro: le suggestioni del luogo, gli avvisi impliciti che la vita delle persone comunica attraverso l'organizzazione spontanea dei propri spazi vitali, di come dispone i fiori e le piante, di come decora le pareti, di come organizza i propri riti sociali, mescolando contemporaneità e tradizione. Il progetto diventa il luogo di una lunga gestazione, dove è difficile individuare i ruoli del padre e della madre: ma in mostra lo vediamo crescere, deformarsi, poi riprendersi e distendersi seguendo i fusti contorti degli alberi spazzati o erosi dalla salsedine, assumendo quasi le sembianze festose di un carro per il "matsuri".
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«Architecture. Possible here? Home-for-All», Padiglione Giapponese, XIII Mostra Internazionale di Architettura, Venezia. Fino al 25 Novembre 2012

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