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«Immaginario» del futuro

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In Primo Piano

«Immaginario» del futuro

Nelle prossime generazioni, il vero analfabeta sarà chi non sarà in grado di capire le immagini tecnologiche. La nostra testa sarà sempre più piena di quella roba. Vivendoci sempre in mezzo per amore o per forza, dovremo imparare a comprenderne gli aspetti subliminali, quelli che vengono dalla loro composizione e dallo stratificarsi in esse di messaggi. Non sarà solo l'arte visiva a diffondere ciò che sta diventando il linguaggio globale più condiviso, anzi questa cerca ora di porsi come il grillo parlante di un possibile appiattimento dell'immaginario comune. Le frontiere del nuovo saranno aperte soprattutto dalla grafica interattiva e dalla possibilità che l'interaction design (per usare l'espressione più corretta) dà di inventare e di riprodurre immagini.
Questo assunto, che in fondo nacque già con Walter Benjamin e che fu alla base degli studi sulla percezione visiva di Rudolf Arnheim, collega alcune recenti manifestazioni culturali: tra queste il libretto di Marco Meneguzzo Arte Programmata cinquant'anni dopo, nell'ambito di una nuova collana di studi brevi edita da Johan&Levi, che legge appunto il perché di una nuova fascinazione per quel momento così ricco e così malamente spazzato via dai fasti della pop art. Accanto al piccolo testo di Meneguzzo è interessante mettere un grosso libro illustrato, Imagery in the 21st Century, pubblicato da Mit Press a cura di Oliver Grau e Thomas Veigl.
L'arte scientista dei primi anni Sessanta, esposta ora a Venezia in una mostra al Negozio Olivetti che ripete quella promossa a Milano, nel 1962, da Bruno Munari e Umberto Eco, predicava la vicinanza al mondo del l'esatto nonostante una grande propensione anche al gioco; d'altro canto metteva in evidenza la consapevolezza che le opere umane stessero diventando più o meno tutte ripetibili, nutrita dall'utopia che questo significasse potere distribuire arte a tutti. Questo sogno così vicino al Bauhaus e ai suoi presupposti di origine socialista è stato rapidamente sconfitto dalla preferenza del collezionismo per il feticcio; paradossalmente è stato riproposto dal miglior marketing del design, che ha capito come un oggetto tecnologico sia tanto più fascinoso quanto più veste i panni di una scultura: ripetibile sì, ma anche magica, misteriosa, impossibile da aprire quasi fosse una pietra filosofale.
L'approccio scientista che caratterizzò l'arte programmata fu demolito rapidamente da alcuni dei suoi sostenitori, taluni in favore del trasferimento dei presupposti di precisione nel solo design – questa la svolta teorica di Tomàs Maldonado – altri all'opposto in cerca di più poesia e libertà esecutiva, come accadde per Gianni Colombo del Gruppo T.
L'importanza dell'uso dei «motorini», come li chiamava Lucio Fontana, ma più in generale della tecnologia, al di là dei successi personali fu profetica. Oggi ci nutrono i motori di ricerca e il nostro immaginario beve le figure che vede su schermi pubblicitari, televisivi, telefonici. Interattivi e con menu à la carte, ma anche impositivi riguardo al genere di estetica che ci offrono. A crearla non sono più gli artisti ma grafici che rispondono quasi sempre a istruzioni precise di carattere promozionale. Non siamo liberi di impostare nemmeno il nostro diario in Facebook perché il sistema mette in ordine da solo quello che noi postiamo.
C'è da chiedersi anzi perché gli artisti più noti tendenzialmente evitino questo mondo: ci sono casi speciali come Takashi Murakami, che ci vende la sua versione del kawaii («carino» in giapponese) in videogiochi violenti, oppure come Eduardo Kac, che ci propone i suoi interventi nel mondo biologico a partire dal suo famoso coniglio con il pelo fluorescente, ma sfogliando il libro di Grau e Veigl si trovano pochi altri esempi oltre a questi. Un'ipotesi è che gli artisti che aspirano a una presenza nel sistema più riconosciuto non vogliano essere inseriti in riflessioni sulla tecnica, perché prevedono che questo sminuirebbe il giudizio critico sul loro lavoro.
Nel mondo dell'arte contemporanea c'è una diffusa diffidenza, infatti, sia verso ciò che è popolare sia verso il sapore della scienza. L'immagine riproducibile, soprattutto se generata al computer, viene guardata con sospetto e chi la usa cerca spesso pellicole d'altri tempi, per l'effetto-memoria che offre un film 35 mm. Non a caso le neuroscienze innervosiscono i critici, che al tentativo di analizzare il cervello preferiscono teorie fumose sull'anima. L'analisi razionale delle opere viene spesso sentita come un abuso: quindi, chi utilizza abilità anche molto speciali come Bill Viola o Pipilotti Rist, cerca di non farsi giudicare sulla base delle abilità tecniche. Questo è certamente un aspetto che ha giocato a sfavore di molti artisti, che hanno poi dovuto crearsi un circuito alternativo per far vedere e per vendere le loro opere: ogni nicchia può rivelarsi una trappola.
Resta il fatto, come osserva un saggio di Peter Weibl contenuto nel libro Mit, che il museo e in generale gli ambiti espositivi si stanno muovendo verso una realtà 2.0, soprattutto per quanto riguarda i percorsi didattici e i materiali divulgativi. Jeremy Douglass e Lev Manovich osservano nel loro capitolo come diventi sempre più importante, per comprendere in modo critico quello che ci influenza, sapere qualcosa di come agiscono i nuovi programmi di computer graphic. Essere schizzinosi in proposito significa porsi in una situazione pericolosa. Kyong Chun ci avverte, però, di come per chi si lasci irretire troppo dal mondo digitale il codice possa diventare un totem anche troppo facile da adorare e in cui rifugiarsi. Accadeva anche ai primi radioamatori di farsi prendere dal mezzo più che dal fine, forse perché esiste un tempo in cui il mezzo corre così veloce da esercitare il fascino delle terre incognite.
Dietro l'angolo ci aspetta una confidenza sempre maggiore con i mondi programmati, ma anche una tale sofisticazione, se comparata a quanto ci si poteva aspettare negli anni Sessanta, che occorre una sorta di formazione critica permanente: farsi violentare dalle figure potrebbe diventare una dimostrazione di passività colpevole.
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Marco Meneguzzo, Arte programmata cinquant'anni dopo, Johan&Levi, Milano, pagg. 76, € 8,90
Oliver Grau-Thomas Veigl, Imagery in the 21st Century, Mit Press, Cambridge (Massachusetts), pagg. 416, € 40,00

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