ArtEconomy24

A colloquio con Howard Greenberg, gallerista-collezionista…

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

A colloquio con Howard Greenberg, gallerista-collezionista d'eccezione

  • –di Sara Dolfi Agostini

"Collezionare fotografie è collezionare il mondo" scriveva Susan Sontag. Secondo Howard Greenberg, però, non conta solo l'immagine ma anche il suo supporto fisico e il processo di stampa, che contribuiscono a renderla unica e preziosa nel tempo. Fotografo, curatore e poi gallerista, Greenberg è tra le personalità più influenti nel sistema della fotografia, siede nel comitato di selezione di Paris Photo e rappresenta autori importanti come Josef Sudek, William Klein (la doppia personale con Daido Moriyama è visitabile alla Tate Modern fino al 20 gennaio) e Joel Meyerowitz. Una selezione della sua collezione personale, che conta oltre 400 fotografie, è in mostra per la prima volta in un'istituzione pubblica al Musée de l'Elysee di Losanna fino al 6 gennaio prossimo, e poi viaggerà alla Fondation Henry Cartier Bresson di Parigi.

Lei ha interpretato molti ruoli nel mondo della fotografia. Come e quando è giunto alla decisione di collezionare?
Sì. All'inizio ero un fotografo ed è stato attraverso la pratica e l'interesse che provavo per il mezzo fotografico che ho sviluppato una conoscenza della storia della fotografia. E poi vivevo a Woodstock, una vecchia colonia creata nel 1902 in cui avevano vissuto grandi fotografi e che non ero distante da New York dove il Metropolitan Museum e il MoMA già organizzavano mostre di fotografia negli anni 70. Così nel 1977 fondai un'istituzione non profit con uno spazio espositivo, il Centre for Photography at Woodstock (http://www.cpw.org), che celebra quest'anno il 30esimo anniversario. Fu allora che progressivamente smisi di fotografare e intrapresi la carriera di gallerista. Mi recavo alle aste e ai mercatini delle pulci, compravo di tutto, macchine fotografiche, stampe, libri, materiali stereoscopici, dagherrotipi: il mio interesse per la storia della fotografia cresceva e con esso anche l'istinto collezionista dentro di me. Nel 1981 mi resi conto che non potevo vivere con i sussidi pubblici che raccoglievo per il Centro e allora aprii una galleria commerciale proprio dietro l'angolo. Per finanziarla vendetti i materiali fotografici che avevo accumulato negli anni.

Ai tempi non collezionava per se stesso?
Allora come oggi non ero propriamente un collezionista: il mio obiettivo prioritario è sempre stato vendere a privati e musei, e solo quando ho potuto permettermelo ho acquistato per me. La prima volta è stato a New York, dove qualche anno prima, nel 1986, avevo trasferito la galleria. Un fotografo di Hollywood mi affidò in consegna alcune fotografie della sua collezione per venderle ad altri. Tra queste c'era una stampa di Karl Struss (1886-1981) che era un fotografo pittorialista membro della Photo Secession di Alfred Stieglitz: costava 4.000 dollari, troppo per quei tempi e così non riuscii a venderla. Ma, quando arrivò il momento di ridarla al proprietario, decisi che quella fotografia me la sarei tenuta io.

Cosa ricerca in una fotografia per la sua collezione e cosa l'attirava, in particolare, della stampa di Struss?
Quando ero un fotografo stavo molto in camera oscura e uno dei motivi per cui amo le fotografie vintage è la possibilità di vedere stampe bellissime realizzate con tecniche che io non posso replicare perché nel frattempo sono cambiati materiali e processi. Però le posso possedere, perché il limite della fotografia, ma anche il suo bello, è che ce n'è molta in giro. Quando ho intrapreso l'attività di gallerista, poi, il mercato era giovane e c'era sempre qualcosa da scoprire e qualcosa in più anche per me. Per quanto riguarda la fotografia di Struss, si tratta di una stampa speciale realizzata con una lente prodotta appositamente dal fotografo e con una carta fotografica immersa più volte nella soluzione al platino che garantisce una qualità eccellente. Inoltre, l'immagine è un buon esempio del perché Struss fosse un autore importante: infatti, nonostante i toni sfumati cari al Pittorialismo di cui Struss era esponente, il concetto è modernista e anticipa un modo di guardare il mondo che si sarebbe diffuso solo negli anni Venti, cioè dieci anni dopo lo scatto.

Com'è evoluta la collezione?
Da principio mi sono appassionato alla New York School, e anche ai fotografi che vennero subito prima: Louis Faurer (1916-2001), Ted Croner (1922-2005), Leon Levinstein (1910-1988). Mi relazionavo al loro lavoro come fotografo e mi piaceva il fatto di riportarlo alla luce. Comunque, molte occasioni mi sono capitate quando alcuni collezionisti a cui avevo venduto delle opere fotografiche hanno deciso di rivenderle.

Mi fa un esempio?
Nel 1989 entrai in possesso di 30 stampe di Manuel Álvarez Bravo (1902-2002) esposte negli anni 40 alla Photo League di New York. Le vendetti, poi però nel 94 il compratore volle rivenderle e tornai temporaneamente in possesso delle stampe, finchè non le ricomprò un collezionista spagnolo. Tuttavia, anche lui decise di venderle insieme a tutta la sua collezione di fotografie vintage per dedicarsi al contemporaneo e mi offrì di riacquistarne alcune. Tra queste c'era "The Daughter of the Dancers" (1933), l'immagine di una ragazza di spalle con un cappello che sbirciava da un oblò. Era la terza volta che passava tra le mie mani e decisi che sarebbe rimasta con me.

La pagò cara?
Sì, i prezzi erano saliti molto. Nel 1989 avevo venduto la collezione di Álvarez Bravo per 85mila dollari. Oggi i dieci scatti più iconici di quella collezione valgono ciascuno più di quel prezzo.

Come collezionista, come si relaziona al concetto di fotografia vintage?
Il mio interesse per la fotografia vintage si declina in vari aspetti - il processo di stampa, i materiali, la tecnica - che insieme fanno sì che certe fotografie appartenenti ad un periodo storico definito siano particolarmente belle e desiderabili per me. Le faccio un esempio. Quando ero un giovane fotografo andavo spesso al MoMA a visitare le mostre curate da John Szarkowski, allora direttore del dipartimento di fotografia. Fu lì che mi imbattei per la prima volta in uno scatto di William Eugene Smith dal titolo "Welsh Miners" (1950): in primo piano c'erano tre minatori con le facce sporche che emergevano dalla polvere del loro lavoro. Era un'immagine potente che permetteva al fotografo di prediligere una stampa dai toni drammatici come era nel suo stile. In seguito, come gallerista, mi sono spesso ritrovato per le mani stampe di quel soggetto, ma mai ho pensato di tenerne una per la mia collezione. Poi, negli anni 90, mi è stato affidato in gestione l'archivio della rivista LIFE, dove ho trovato le stampe originali di numerose fotografie iconiche del Novecento, tra cui anche quella di Eugene Smith perché era stata commissionata dalla rivista. Si trattava della prima stampa di quello scatto, ma contrariamente alle mie aspettative non era affatto drammatica. Decisi comunque di tenerla: era unica e nonostante fosse una semplice stampa diretta da negativo possedeva un'aura.

In galleria lavora con autori contemporanei come David Goldblatt e Bruce Davidson (entrambi in mostra alla Barbican Art Gallery di Londra fino al 13 gennaio nella collettiva "Everything was moving" ndr). Qual è il suo rapporto con la fotografia digitale?
Non ho alcun problema intellettuale con il digitale: numerosi fotografi e artisti lo trovano interessante per il loro lavoro e lo capisco. Però, facendo di mestiere il gallerista, gestisco molte, moltissime fotografie, e quelle che scelgo per la mia collezione devono avere un punto di contatto con la mia esperienza personale, in particolare con quella precedente di fotografo, e il digitale non può per una questione puramente temporale.
Ogni collezionista pone dei limiti alla sua collezione: economici, tematici, storici. Quali sono i suoi?
Una fotografia per interessarmi deve essere speciale. Una prima stampa, una stampa unica. Qualcosa deve rendermela diversa dalle migliaia di fotografie che passo in rassegna quotidianamente.

La collezione è cresciuta in modo progressivo o ci sono stati dei periodi in cui ha accumulato più opere?
La collezione si è sviluppata quando ho cominciato ad avere soldi in tasca. Direi soprattutto a partire dal 1991, quando ho spostato la galleria in uno spazio più grande e l'economia americana è ripartita con la spinta dei Giapponesi. L'accesso all'archivio di LIFE, in quel periodo, mi ha permesso di acquistare per me una quindicina di fotografie tra cui due scatti emblematici di Robert Capa (1913-1954), uno di William Eugene Smith (1918-1978) e di Henry Cartier Bresson (1908-2004). Successivamente, nel 2000 ho comprato la fotografia di Edward Weston (1886-1958) che è la cover del catalogo della mostra, e una stampa di Eugène Atget (1857-1927) che, invece, non è stata selezionata per questa occasione. L'avevo venduta ad un amico e quando, una decina di anni fa, lui se ne è voluto disfare per occuparsi di fotografia cinese ho deciso di ricomprarla. In passato mi era capitato di vendere un gruppo di fantastiche stampe di Atget al Getty Museum, ma per me era quella la fotografia significativa per la mia collezione: aveva tutte le qualità che mi aspettavo da un lavoro di Atget, era romantica, aveva carattere. Adesso è nel mio studio.

La collezione include delle aree tematiche che non rientrano nel campo della fotografia definita "fine art". Come è entrato in contatto con questi materiali, quelli relativi alla musica ad esempio?
Adoro la musica, sono cresciuto ascoltando il Blues, i Grateful Dead e Bob Dylan. Finita l'Università ho anche scritto delle recensioni per riviste specializzate. Per questo quando mi trovo per le mani una fotografia con un musicista che significa molto per me, non esito ad acquistarla. È stato il caso con il lavoro di Carole Reiff, una fotografa che realizzò un libro sconosciuto sul Jazz negli anni 60 e morì giovane. Visionai il suo lavoro attraverso un mio amico californiano che aveva comprato alcune sue fotografie venti anni prima. Tra queste ce n'era una di Ray Charles in studio di registrazione che adesso è parte della collezione. Ray Charles è il mio musicista preferito.

Dove compra?
Compro ovunque. In asta e anche da altri galleristi al prezzo di mercato. Di recente ad Art Basel Miami Beach ho trovato una stampa di Weegee, "Macys Thanksgiving Day Parade" (1942). Era molto costosa, 28mila dollari, ma l'ho comprata lo stesso.

Qual è l'autore più rappresentativo della collezione?
Ho diverse fotografie di Weegee (1899-1968) e di Roy DeCarava (1919-2009); anche se non l'ho mai rappresentato ritengo che non ci sia al mondo un altro fotografo capace di racchiudere così tanto significato nelle sue stampe. I curatori hanno scelto quattro sue stampe per la presentazione della collezione perché Agnès Sire della Fondazione Henri Cartier Bresson ritiene importante il suo lavoro e sa bene quanto sia difficile organizzare una sua mostra dal momento che è morto tre anni fa. Un altro fotografo è Leon Levinstein (1910-1988), esponente della New York School. Ho comprato il suo patrimonio fotografico per la galleria e mi sono tenuto una decina di stampe che sul mercato si vendono a 5-10mila dollari. In primavera uscirà un libro a lui dedicato per Steidl.

Dove tiene la sua collezione?
In casa. Anzi, per la precisione una fotografia entra ufficialmente a far parte della mia collezione quando viene a casa con me.

© Riproduzione riservata