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Mosaici alla fermata del Metrò

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Mosaici alla fermata del Metrò

Per i napoletani rimasti al buio durante le feste di Natale, l'annuncio del «Daily Telegraph» che Napoli ha la metropolitana più bella del mondo è stato il regalo più gradito per un ego quotidianamente ridimensionato dalle note cronache di mala amministrazione. Classificata ai vertici di una classifica mondiale che vedeva Napoli concorrere con Stoccolma e con Monaco, con Parigi, Londra e persino Mosca, la nuova stazione metropolitana di via Toledo ha messo così a tacere le critiche alla reale efficienza di treni che passano ogni quindici minuti e rilanciato un tema – quello dell'arte urbana – che in Italia non ha mai conosciuto grandi fortune, limitandosi a pochi, discutibili esempi di opere collocate in spazi pubblici.
Come ha scritto recentemente Anna Detheridge in un libro, dedicato alla funzione dell'arte nella rigenerazione urbana, la «sorpresa architettonica è un investimento nel futuro, uno spostamento simbolico. Maggiore è il declino, più importante diventa la metamorfosi». Così Napoli può dimostrare con questa stazione (che, va ricordato, è parte del più generale programma delle "stazioni per l'arte", avviato con le metropolitane Materdei e Salvator Rosa dell'Atelier Mendini) di essere pienamente post-moderna senza essere mai stata veramente moderna.
La nuova stazione – che segue a ruota quella non lontana della fermata Università firmata da Karim Rashid – prende il nome della strada più rappresentativa della città: via Toledo (ridimensionata dopo l'Unità nella più generica denominazione di via Roma), fatta costruire nel 1536 dal viceré Pedro Álvarez de Toledo per unire le due principali piazze cittadine (l'attuale piazza Dante, dove sorge un'altra stazione disegnata da Gae Aulenti, e piazza Trieste e Trento, dominata dalla Galleria e dal teatro San Carlo).
Resa "nobilissima" dall'affaccio monumentale delle più fastose residenze aristocratiche, la via Toledo è anche strategica per gli abitanti di quei "quartieri spagnoli" di cui costituisce ancor oggi la frontiera con la città borghese e al tempo stesso lo "sbocco" verso la luce dell'affollato e oscuro "ventre" di Napoli. L'architetto (e designer) Oscar Tusquets Blanca di Barcellona ha dunque interpretato l'occasione dell'imponente scavo per rappresentare una discesa agli inferi particolarmente congeniale a una cultura così profondamente radicata al culto dei morti e alla frequentazione della catacombe.
Ma la Napoli sotterranea che si disvela lungo la serrata distesa dei quasi cinquanta metri che separano l'ingresso dal piano dei treni è suggestiva ma non tenebrosa. Grazie anche all'invenzione degli affusolati lucernai che dalla strada convogliano la luce verso il basso, consentendo a commuters e pendolari di cogliere attraverso questi lunghi cannocchiali sprazzi del mondo che hanno appena lasciato.
Il tema principale, infatti, è quello di riproporre in senso dinamico l'esperienza stratificata della città: al piano interrato, Tusquets ha messo in evidenza i resti della cinta muraria di età aragonese disseppelliti in cantiere, facendoli scontrare con il grande mosaico di William Kentridge ispirato alla storia della città. L'incontro è emozionante, reso ancor più suggestivo dalla penombra che sconcerta il visitatore frettoloso, ma convince il turista a pagare un biglietto d'entrata per la curiosità di un ambiente così insolito. Un poco alla volta, da un fitto mosaico di tasselli emerge una processione di figure che culmina nella sagoma inconfondibile di un San Gennaro che sembra Totò nella famosa scena de L'oro di Napoli. Con grande sensibilità Kentridge sembra aver colto l'immagine plurisecolare di una città a strati, componendo un mosaico di frammenti che nulla ha da invidiare ai grandi tappeti musivi delle domus di Pompei ed Ercolano, esposti da più di tre secoli nel vicino Museo Archeologico Nazionale. Accompagnati da un silenzioso concerto di plebei "putipù" e "triccheballacche", i personaggi danzano sullo sfondo di scene di un più recente passato, quello dei lavori per la costruzione della ferrovia centrale nel 1906, ad esempio, o della bonifica dei quartieri spagnoli del 1884.
Scendendo ancora più in basso, si abbandona la Storia e si trova la Natura: i colori dei rivestimenti (realizzati con i bellissimi mosaici di Bisazza) da terrosi diventano liquidi. È la metafora dell'abbandono della terra e del ritrovamento del livello del mare che caratterizza la scoscesa topografia urbana.
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