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Zio Charlie, che zoommate!

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Zio Charlie, che zoommate!

Era rimasto di guardia, come alla frontiera, nudo, primordiale, perché il dolore non gli aveva lasciato che segni sulla pelle e una pistola per accogliere e proteggere i suoi fantasmi. Avrebbe aspettato per l'eternità davanti a quella finestra a feritoia di bunker, se un dio metropolitano gli avesse promesso che un giorno, domani o nei secoli a venire, Joe sarebbe tornato in vita. Per questo, nonostante la casa fosse ormai vuota, nonostante il trasloco, Charlie aveva lasciato la luce accesa nella stanza del figlio. Ma non si era presentato nessuno, nessuno era risorto, e quella "camera chiara" al 23 di Troutman Street, a Brooklyn, luogo ideale al racconto fotografico, si sarebbe oscurata per sempre se non fosse stato per un altro ragazzo, non figlio ma nipote, Marc Asnin. Per tre decenni, dall'inizio degli anni 80 al 2012, Asnin ha seguito e fotografato suo zio Charlie, entrando nelle zone più intime della sua vita, le più dolenti, le più estreme, azzerando ogni distanza in uno sfuocato che non è aggressione ma carezza, fino a restituirci oggi un ritratto, meglio un romanzo per immagini di grandiosa tenuta narrativa.
A distanza di trent'anni dall'incontro tra uno studente di fotografia, futuro premio Eugene Smith, e l'uomo che gli avrebbe aperto le porte del suo inferno, è nato un libro struggente, Uncle Charlie, appena pubblicato da Contrasto, responsabile di tutte le edizioni internazionali. Quattrocento pagine, trecento fotografie in bianco e nero, e un testo autobiografico senza tregua né censure, raccontano – intrecciandosi a quei documenti che rappresentano il grado zero della scrittura di ognuno di noi, pagelle, certificati medici, foto tessera, album, impronte digitali, disegni e biglietti di auguri – la storia di Charlie Henschke, classe 1940, ebreo in fuga dall'Europa, figlio della guerra e di una madre senza affetto, bambino prodigio sottratto alla scuola da un padre alcolista e allibratore. «Mio padre vinceva. Vinceva per perdere», ricorda Charlie.
Anche Marc Asnin ha scommesso forte, trasformando la tragedia di un uomo nel documentario cupo di un'America senza futuro né luci, se non quella di un accendino che illumina le candele di una torta di compleanno e un attimo dopo riscalda una dose di crack. Un'America da marciapiede, distruttiva, tatuata di sconfitte, lontana dal vitalismo dello Zio Sam e dal suo implacabile «I want you», e per questo pronta ad accogliere la fragilità romantica dello zio Charlie e di quel suo corpo a guscio, scavato dall'anoressia e dal rimpianto.
Tema meraviglioso e profondissimo, il rimpianto, ed è su questo registro di pura commozione che Asnin conduce la sua interminabile inchiesta, ritraendo Charlie insieme alla terza moglie, Blanca, moglie droga e drogata, insieme ai cinque figli, amatissimi, Charles, Joe, Brian, Mary e Jamie, che crescono e dimenticano, e insieme agli arredi di un'esistenza "orizzontale", trascorsa per la maggior parte nel dormiveglia del Valium. Charlie, ex bambino che studia l'ebraico, ex prodigio di matematica con una borsa di studio e un futuro quasi in mano, e ancora ex figlio che assiste il padre nonostante tutto, si sdraia su un letto di parole e si confessa a quell'unico testimone di fronte a lui: «C'è un'amarezza perché sai che poteva essere diverso. Non cercavo un aiuto materiale, se solo mi avessero lasciato prendere il mio ritmo, o roba così. Solo poter andare a quella scuola, o quel che era. Chissà cosa potevo diventare. C'è un grosso punto interrogativo». E ancora: «Ho visto sfiorarmi la vita alla velocità di un uragano, ma su quei gradini non mi è arrivata neppure una leggera brezza». Poche parole e siamo già sedotti dal fascino «di quest'allenatore di strada, di questo duro, simbolo di tutto ciò che volevo essere io», come confessa a sua volta Asnin.
E ci viene in mente un altro inno americano alle speranze infrante, quelle battute memorabili che Marlon Brando, ex pugile in Fronte del porto di Elia Kazan, Oscar 1954, pronuncia al fratello Charlie, colpevole di aver truccato l'incontro decisivo alla sua carriera: «È questione di classe! Potevo diventare un campione. Potevo diventare qualcuno, invece di niente come sono adesso». Anche lo zio Charlie, come Terry Malloy, guarda fuori dal finestrino della macchina e dalla finestra di casa con quegli occhi che hanno già contemplato la fine e quindi sanno. Anche lui è "niente" e non crede che il meglio debba ancora venire. E anche noi, insieme a Marc Asnin, puntando il dito tra le pieghe di quella esistenza sfatta, ma accogliente, umana perché più autentica di altre, non diciamo altro se non «We want you, Uncle Charlie».
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Marc Asnin. Uncle Charlie, Contrasto, Roma, pagg. 408, € 45,00

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