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Dotta, sexy e divertente

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Dotta, sexy e divertente

C'era una volta la Fiera di Bologna, anzi Arte Fiera, con i cataloghi a quadrotti come i tortellini. Era il primo appuntamento dell'anno per gli appassionati d'arte contemporanea, che oggi l'anno non lo finiscono affatto perché, reduci da Miami-Basel di dicembre, non hanno tempo di guardare il calendario. Era in un edificio abbastanza squallido ma sempre pieno di gente, accanto a una Galleria Civica altrettanto squallida, ma sempre piena di mostre eccitanti. Nata nel 1925 e ricostruita vicino alla Fiera con pavimenti di marmo anni settanta, ci si potevano comunque vedere mostre che sono rimaste storiche, da quella in cui Ulai e Marina Abramovic facevano passare il pubblico attraverso i loro due corpi nudi, nel 1976, a quella in cui, nel 1992, si vide per la prima volta cosa era capace di fare un ragazzo di 32 anni chiamato Cattelan: Renato Barilli, che per anni è stato l'anima un po' professorale ma sempre aggiornata di quella città, gli aveva commissionato un biliardino per ventidue giocatori, undici dei quali raccolti tra i primi vù cumprà del Forlivese.
Si guardava la fiera con piacere loquace, si vedevano opere quasi solo italiane e di questo ci si lamentava un po', ma la sera ci si spostava verso il centro della città a mangiare bene, a bere quel Sangiovese o quel Lambrusco che ora diventano chic, ma che allora venivano dati quasi ovunque come vino della casa in caraffa. Non era un secolo fa, ma il passaggio di mano dalla direzione di Silvia Evangelisti alla coppia (invero anagraficamente più fresca ed esteticamente peggiore) formata da Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti fa sembrare tutto lontano. Il che non è necessariamente un pregio, ma certo è occasione di nostalgia. Perché ciò che ci manca è il modo in cui Bologna si offriva al pubblico, questa città con il sedere sui colli e i fianchi molli e il seno rivolto al Po, come dice Guccini in una sua canzone.
Ciò che ci manca è la natura placida ma bollente di un luogo dov'è nato di tutto: la prima università, anzitutto, che dal 1088 porta i giovani a rompere ogni equilibrio conservatore sotto i suoi portici e che, ancora oggi, riempie le aule e le case di circa 800mila ragazzi l'anno. Secondo le note teorie di Florida, già solo questo drastico abbassamento dell'età di chi ci abita ne fa un posto dorato per qualsiasi attività creativa e anticonformista.
Ed è davvero qui che è nato un certo made in Italy della politica che ora vediamo ritornare in auge, meno violento di quello che connotò la Facoltà di sociologia a Trento e più capace di stare al passo con i tempi: lo vediamo dall'attenzione spasmodica che hanno acquisito nel tempo le teorie di Franco Berardi, che è passato dalle manifestazioni degli indiani metropolitani nei tardi anni Settanta alle teorie sul rapporto tra nuove concezioni del lavoro e mondo digitalizzato. È vero che l'apertura politica condusse ai fatti di via Zamboni, quella dove si aprono i portici dell'università di oggi e dove, nel 1977, si sparò invece di studiare. È vero che quegli eventi, accanto alle P38 in via De Amicis a Milano, furono i fatti che precedettero l'omicidio di Aldo Moro e che spezzarono il fiato a ogni rinnovamento politico serio nella sinistra di allora.
Ma a Bologna gli effetti non si videro subito. Da un pezzo non circolavano più i cappelli a punta dei goliardi, fatti di feltro e frange come nel Medioevo. Ma lo spirito allegro era stato sostituito da un modo di vivere in piazza Grande, di suonare ai citofoni dell'uno e dell'altro, di sentirsi parte di una nuvola di pensiero diurno e divertimento notturno.
Ci fu tutto il tempo perché crescesse una città degli artisti capace di stare ancora al passo con Parigi: si pensi al mondo del fumetto, capace di tener dietro con riviste come «Il Cannibale» alla sorella francese «Metal Hurlant». Tamburini e Pazienza, racconta Filippo Scozzari nel suo esilarante Prima pagare poi ricordare (Castelvecchi), si imbufalivano contro gli amici pittori (e soprattutto Marcello Iori, che riceveva in un bel salotto) perché non sapevano disegnare e non dovevano dimostrare a un editore di inventare delle narrazioni. A Bologna era nato, sotto gli auspici di Umberto Eco che già vi aveva importato la semiotica, il primo Dams (Disciplina per le arti, la musica e lo spettacolo): un corso di laurea che alcuni genitori videro come ciò che avrebbe rovinato i loro figli, magari usciti dal classico con 8 in greco, e che altri valutarono con sollievo («questo almeno riuscirà a farlo...»). Un esperimento serio e con ottimi professori, a dire il vero, che trasse più di uno spunto da un contesto cittadino in cui era cosa quotidiana suonare, fare performance, disegnare, vendere opere (perché no) ad Arte Fiera. Per i cui corridoi capitava di vedere una bella mora, una ragazza vagamente tradizionale ma con il viso spiritato da un trucco punk e dai primi gel che facevano la cresta ai capelli. Era lei, Francesca Alinovi, che andava a New York e da lì portava a Bologna le novità. Studiosa pertinace, non si arenava di fronte a una serata al l'East Village o a un'amicizia pericolosa.
Nel giugno 1983 è stata uccisa da un giocatore pericoloso. Con la sua scomparsa, così traumatizzante per il mondo dell'arte così come per quello del Dams, che in lei trovavano un punto di congiunzione, Bologna si è spaventata e si è spenta.
C'è stato ancora posto per il Link, un locale nel quale si sono visti i primi esperimenti di performance multimediale, poi diventato Xing.
E c'è stato ancora posto per il Mambo, il museo nato nel 2007 dal trasferimento della Galleria Civica. La rinascita di una Bologna Felix almeno durante i giorni della Fiera viene in massima parte dal suo direttore, Gianfranco Maraniello.
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