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Beni ad alto tasso estetico

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Beni ad alto tasso estetico

Sappiamo che Gauguin, ritiratosi che fu alle Isole Marchesi, lasciando dietro di sé moglie, figli, e risse con Van Gogh e l'inizio di una imprevista fortuna mondana, continuava dall'altro capo del mondo a leggere quando poteva il «Mercure de France», a corrispondere con i mercanti mentre tutti lo pensavano isolato e assente dal mondo, sulle più selvagge isole della Polinesia, ossia le Marchesi. Diversamente da lui, Caravaggio morì di febbre su una spiaggia deserta, naufrago, lacero, inseguito dai creditori e da coloro che l'avevano ospitato e gli avevano consentito di dipingere a Malta due dei suoi più grandi capolavori, che ancor oggi s'ammirano in quella cattedrale. Sono due vicende emblematiche per capire che il mercato dell'arte è un'istituzione recente, che nasce solo con il pieno dispiegarsi dell'economia monetaria e quindi con il sistema capitalistico.
Prima del capitalismo non si comprava l'opera d'arte: si comprava l'artista. E a comprarlo era un committente, ossia un sovrano, uno Stato, una signoria, un feudo, un'abbazia, una chiesa, una sala da ballo di un castello o di un casino di caccia. Naturalmente tutto ciò era legato non tanto all'assenza o alla presenza di opere d'arte trasportabili: se così fosse stato, non avremmo avuto le collezioni e oggi le raccolte museali. Il problema era che, comprato l'artista, l'acquirente comprava l'opera non per venderla a sua volta ma per possederla per sempre. Quando Walter Benjamin parlava della perdita dell'aura del l'opera d'arte per l'avvento della sua riproducibilità tecnica, pensava alla scissione tra opera d'arte e soggetto che ne era un tempo contemporaneamente l'acquirente e l'amatore, il fruitore. Per questo Gauguin poteva seguire dalle Marchesi l'andamento del valore economico dei suoi quadri che egli aveva lasciato a Parigi. Poteva farlo perché la differenziazione sociale durkheimiana, tipica dell'avvento della società industriale capitalistica, aveva creato una funzione sociale: il mercante dell'arte.
Egli acquistava non per tenere, non per donare, ma per vendere. Certo, in fondo il mercato dell'arte altro non è che la trasposizione sul terreno della relazione sociale del principio del plusvalore marxiano: come il saggio di profitto deve essere superiore al monte salari, il saggio del valore della vendita dell'opera deve essere superiore al saggio dell'acquisto dell'opera medesima. Il mercante d'arte è il mercato dell'arte, come il capitalista come imprenditore è il mercato capitalista. Tutto diverso tra ciò che accadeva con l'acquisto dell'artista piuttosto che dell'opera. Certo, era un acquisto a tempo: gli artisti giravano per le corti, per i principati, per le signorie, sino a giungere in Vaticano e fondare quella meraviglia delle meraviglie che è la Roma barocca, inarrivabile pinnacolo della compravendita dell'artista da parte del potere sovrano. Certo, anche nel periodo della relazionalità immediata tra artista e committente esistevano di già i presupposti per l'avvento di un mercato: erano le botteghe dei grandi artisti, con apprendisti e maestri, con più committenti e con contemporanee creazioni di molteplici opere d'arte. Ma non era ancora nato il mercante puro, specializzato, per garantire tanto la circolazione della moneta quanto quella dell'opera d'arte.
I Salons parigini che videro la ribellione degli impressionisti furono in effetti l'avvento della prima sorta di Borsa del mercato per l'opera d'arte, con i suoi operatori, specializzati nelle transazioni moneta-arte-moneta, e naturalmente gli artisti produttori. L'incanto della relazione diretta tra artista e acquirente-fruitore immediato ed eterno era spezzato: dalla regola diveniva l'eccezione. Ecco, a metà dell'Ottocento circa, apparire a Parigi un vero e proprio mercato dell'arte grazie alla creazione di operatori specializzati nelle transazioni. Si concludeva un secolare travaglio relazionale. Infatti le fiere negli staterelli tedeschi, le esposizioni nei manors inglesi sino a giungere alle case d'aste dove si alternavano esposizioni di dipinti con letture di poesie e di novelle (così ben descritte dalla Austen) altro non erano che eventi antesignani del mercato dell'arte.
Oggi le grandi gallerie d'arte sono imprese capitalistiche che commerciano opere d'arte con dei produttori, gli artisti, degli esperti di marketing (alcuni grandi collezionisti o critici che dettano i moods), i grandi filantropi, che tramite i loro musei impongono o distruggono artisti, scuole, e gli stessi critici. Anche in questo caso si tratta di un mercato imperfetto, con collusioni oligopolistiche e occlusioni monopolistiche. La novità, rispetto a ciò che accadeva ai tempi di Gauguin, è che oggi questa relazionalità dell'opera d'arte nell'economia monetaria ha sempre più bisogno di regole che non siano solo costumi e attitudini.
L'intercambiabilità degli offerenti e degli acquirenti, l'immaterialità piena di valore dei brands e dei prodotti dell'intelletto generata dall'industria culturale richiedono via via di fuoriuscire sempre più dall'aura dei gentilhommes che si scambiavano l'arte come oggetto d'amore e di desiderio: oggi si invera l'atmosfera del venditore che espone prodotti e listini dei prezzi, e che a differenza dei gentilhommes, in assenza di autoregolazione, deve essere ben regolato. Nasce anche per l'arte una specializzazione del diritto privato. Il piccolo collezionista, l'amatore, il giovane artista che vivono in una sorta di comunità di sussistenza, circondati dal mercato regolato, naturalmente continuano a esistere e continuano a proliferare, perché, anche in questo caso, la società continua a riprodurre comunità a riprova della genialità dell'intramontabile Ferdinand Tönnies.
Quello che colpisce dinanzi a un universo che diventa via via sempre più regolato e dominato da giganteschi intermediari, è la continua riproducibilità naturale e spontanea dell'opera d'arte. Hegel, dinanzi al l'emergere dello stato etico o della gabbia d'acciaio burocratica che sarà poi descritta da Weber, aveva parlato di morte dell'arte, su cui quel gran maestro che fu Giulio Carlo Argan scrisse pagine indimenticabili. Ma già Taine dubitava di questa morte del l'arte, e quel dubbio si è ora trasformato in certezza.
L'arte, quale che sia la sua espressione, rimane ben poco influenzata dalle oscillazioni di mercato, se si guarda nel lungo periodo. Sono sempre importanti le oscillazioni del gusto, invece, come ci insegnano gli innumerevoli studi sulla fortuna delle poetiche pittoriche, scultoree, architettoniche e musicali. In definitiva il mercato dell'arte, anche oggi che vuol farsi possente e potente, richiama all'irriducibilità, alle logiche monetarie della scaturigine creativa, spirituale dell'artista. Così come del collezionista, amatore dell'arte e non del suo scambio. Che è come dire che l'arte non morirà mai perché non morirà mai la persona.
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il libro

Il libro Il Diritto nell'Arte, a cura di Gianfranco Negri-Clementi (Skira, pagg. 220, s.i.p.) sarà presentato a Milano, presso la Sala Napoleonica dell'Accademia di Brera mercoledì 6 febbraio (ore 18). Interventi di Salvatore Carrubba, del curatore Gianfranco Negri-Clementi, dell'editore Massimo Vitta Zelman, di Stefano Pizzi, Mario Boselli, Giacomo Campora. Il libro, primo di una trilogia, raccoglie interventi di Giulio Sapelli (in questa pagina), Alessandro Montel, Davide Sangiorgio, Stefano Baia Curioni (uno stralcio in questa pagina), Massimo Saita e Roberta Provasi, Gianfranco Negri-Clementi e Silvia Stabile e Mariacarla Giorgietti.


403mila gli addetti del settore Nel sistema dell'arte contemporenea secondo le ultime stime ci sarebbero 403mila tra dealers, case d'asta e gallerie
11 miliardi ricavi del 2011 in dollari Sarebbero 11,57 miliardi di dollari i ricavi globali nel 2011 per le Aste di Fine Arts
41mila pezzi venduti nel 2011 Si stima che i pezzi venduti di arte contemporanea nel 2011 siano 41mila, con un peso totale del mercato del 10,2%

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