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La scultura pura della Nevelson

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La scultura pura della Nevelson

Lei, Louise Nevelson, nata Leah Berliawsky nel 1899, in Ucraina, ed emigrata nel 1905 negli Stati Uniti con la famiglia, in fuga dall'antisemitismo zarista, era una donna intelligente, bellissima e anticonformista, volubile ed egocentrica, ribelle e stravagante, trafitta dalla depressione ma determinata a raggiungere i suoi obiettivi, teatrale nei comportamenti e nel vestire e oracolare nell'eloquio. Ma era, soprattutto, un'anima libera in un tempo in cui alle donne poco era concesso al di fuori del ruolo di "angelo del focolare". Che lei rifiutò, sempre in nome della libertà. Alludendo alla separazione dal marito, sposato soprattutto per ottenere la cittadinanza americana, commentava: «Mi feci il dono più grande che potessi farmi: la mia stessa vita. Ne pagai il prezzo, ma non mi importava un accidente se non avevo le scarpe, perché era l'arte quello che volevo».
Facile quindi cedere alla tentazione di parlare di lei facendo leva su una biografia così pittoresca e fuori dalle righe. Ma Louise Nevelson è stata in primo luogo una vera artista, e all'arte, vissuta come una sorta di predestinazione religiosa, ha votato l'intera vita, studiando molto – e sempre con maestri di prim'ordine – la pittura e la scultura ma anche il canto, il teatro e la modern dance: per padroneggiare tutta la sua creatività.
Fin da bambina lei era «l'artista». Scriverà (ma era ormai il 1973) di averlo annunciato già a nove anni, precisando: «No, non un'artista: voglio fare lo scultore; non voglio che il colore mi aiuti». Che sia vero o che si tratti di una pennellata aggiunta al personaggio che seppe genialmente costruirsi, poco importa, perché Louise Nevelson riuscì davvero a diventare una grande scultrice e a dar vita a un linguaggio plastico potente: autonomo e personale ma ben consapevole dei raggiungimenti delle avanguardie, e al tempo stesso radicato in culture primigenie come l'africana, la precolombiana, l'indoamericana, di cui fu anche un'accanita collezionista.
La mostra curata da Bruno Corà per Fondazione Roma Museo (con Arthemisia Group e con il fondamentale apporto della Fondazione Marconi di Milano: fu Giorgio Marconi infatti a "portarla" in Italia nel 1973), è un'occasione rara per conoscere il suo lavoro, perché il curatore ha volutamente lasciato sullo sfondo tutto il pittoresco armamentario della sua biografia per puntare sul solo linguaggio artistico, illustrandone al meglio la complessità strutturale, compositiva, culturale.
Ostile alla teoria, Nevelson trovò la sua strada in modo intuitivo, se non istintivo. Ma alimentò l'istinto studiando molto: nel suo bagaglio ci sono Picasso, maestro dichiarato, e il cubismo; il Dada, il surrealismo e il neoplasticismo, conosciuti prima in Europa, poi frequentandone i maestri (Duchamp, Ernst, Man Ray, Breton e Mondrian) rifugiati durante la guerra a New York; il costruttivismo russo, il futurismo, e la metafisica di de Chirico e Morandi, con le "scatole" vuote dei loro interni senz'aria da lei trasportate nelle tre dimensioni della scultura. E ci sono le sculture africane, precolombiane e dei nativi americani, alle quali riconosceva un'inedita forza. Alla metà degli anni Cinquanta (era ormai quasi sessantenne) fu come se tutto ciò che aveva interiorizzato trovasse una sintesi nelle nuove, bellissime sculture assemblate, che finalmente le procurarono la fama. Su queste punta naturalmente la mostra, pur senza trascurare né i disegni degli anni Trenta, che provano l'effetto liberatorio esercitato dalla danza di Mary Wigman e Martha Graham sulla sua concezione del corpo e dello spazio, né le piccole sculture in terracotta, legno e pietra dei Quaranta, molte già dominate dal nero. Tra quei materiali Nevelson sceglie in seguito il solo legno, ma il legno di recupero, trovato nelle strade e amato per la componente di memoria che incorpora in sé. Ripercorre così le vie del collage cubista, che si serviva di oggetti feriali («da lungo tempo intrisi di umanità», diceva Apollinaire) mentre interseca le piste battute da Robert Rauschenberg. E con quei legni modellati da altri per fare modesti mobili, compone fitti, sconcertanti, magnifici assemblage, che racchiudono in sé la dimensione preziosa del tempo.
Prima sono forme libere («table-top landscapes»), poi totem, colonne o "muri" formati dalla giustapposizione di decine e decine di alveoli lignei, ognuno dei quali contiene una forma: tutti unificati da un solo colore, che è quasi sempre il nero – «perché contiene tutti i colori» –, poi anche il bianco e l'oro. Tanto che si è parlato per lei – un po' frettolosamente – di alchimia, con i passaggi dalla nigredo all'albedo, all'oro. In realtà quei colori uniformi le consentono di servirsi magistralmente dell'ombra come di un elemento costitutivo dell'opera (si definiva «architetto del l'ombra»), assecondando il gusto per la teatralizzazione del suo lavoro: così al Whitney Museum volle illuminare le opere nere con una luce blu, per accentuarne le ombre, con un'invenzione allestitiva felice qui citata in una sala.
Dal muro all'environment il passaggio sarà quasi naturale («sono la nonna del l'environment» le piaceva ripetere, non senza civetteria) e così lo è il passaggio alla dimensione pubblica, prima un po' temuta poi amata, tanto che alla fine (muore nel 1988, carica di gloria), con la consueta sfrontatezza, deciderà di fregiarsi del titolo di «architetto ambientale».
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Louise Nevelson, Roma, Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, dal 16 aprile al 21 luglio; Catalogo Skira.
Info: www.fondazioneromamuseo.it

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