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Gli splendori dell'«arte civica»

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Gli splendori dell'«arte civica»

Per tentare una breve rassegna delle «figure» a cui Firenze, fra il Medioevo e i primi del Quattrocento, affidò la propria identità politica e i messaggi rivolti ai cives, agli alleati e agli avversari, è opportuno muovere da un'immagine non rappresentata ma scolpita a chiare lettere: l'autoritratto della città tracciato nell'epigrafe che nel 1255 consegna ai posteri («futuris») il primo palazzo civico, quello dei capitani del Popolo (oggi Bargello). Mentre chiede che Cristo la conservi in pace, una Firenze «fervens salute» si proclama non solo reduce da successi militari ed egemone su «Tuscia tota», ma segnata dal crisma della sovranità: una nuova Roma, consacrata dalla forza delle armi e dalla certezza del diritto.
In quella Firenze in ascesa, le iperboli epigrafiche poggiavano su successi recenti e concreti, fra i quali il debutto del Fiorino d'oro, destinato a propagare davvero per «totum orbem» un'efficace immagine della città. Com'è noto, il Fiorino porta al recto l'arme del Giglio, il flos di Florentia – prima e più cara insegna – che si voleva concesso dai fondatori romani: ché Firenze era «tamquam Roma» in quanto «bellissima e famosissima figlia di Roma» (Dante, Convivio I, 3). Al verso, l'effigie di San Giovanni Battista – primo e più caro patrono – legava inscindibilmente il moderno veicolo della potenza economica della città al «San Giovanni», il Battistero, cuore antico e sacro della sua identità e della sua romanitas.
Il Battista – lo testimonia Dante (Inferno XVI, 143-144) – non era stato a Firenze «primo padrone»: al tempo di Costantino sarebbe subentrato a Marte, primo titolare di un tempio ottagono. Giovanni Villani, spiegando «come in Firenze fu fatto il tempio di Marti, il quale oggi si chiama il Duomo di Santo Giovanni» (Nuova cronica, II, 5), fisserà una radicata percezione dell'edificio come testimone della continuità di Roma dentro Firenze.
Cresciuta attorno a un tempio antico, la «figlia di Roma» si scelse presto, ufficialmente, un ulteriore patrono pagano: dal 1277 il Comune autenticava le sue lettere con un sigillo «in quo erat ymago Erculis». La legenda «Herculea clava domat Florencia prava» associava alla "marziale" spinta espansiva della città la forza giusta e benigna dell'eroe, precocemente cristianizzato e fatto simbolo civico. Che poi di Ercole si appropriassero pro tempore i ghibellini per il loro sigillo, mostrandolo in atto di "sbarrare" il leone, insegna guelfa e simbolo antichissimo di Firenze, potrebbe leggersi come una nuova vendetta di Marte.
Prima ancora che si chiuda il Duecento, il panorama dell'arte civica fiorentina sembra segnato da tratti leggibili e duraturi. I luoghi: la stretta colleganza fra sedi della vita politica e spazi sacri alla devozione cittadina (si pensi solo alla natura istituzionalmente civica dei cantieri della Cattedrale e di Orsanmichele: e questa mostra si apre e si chiude sulle immagini dei patroni della città e delle arti). I temi: la centralità della romanitas, come eredità storica e come destino di espansione e di sovranità, e l'anelito a una pace interna mai raggiunta. I mezzi espressivi: la declinazione "all'antica" dei simboli cittadini.
Al momento in cui Firenze dispone dei suoi palazzi civici – all'aprirsi del Trecento il Bargello è superato dal Palazzo dei Priori delle Arti (l'attuale Palazzo Vecchio) –, i Comuni dell'Italia settentrionale hanno da tempo messo a punto un lessico visivo atto a rispondere alle esigenze comunicative delle autorità cittadine. Si celebravano successi diplomatici e militari o acquisti territoriali, e si stigmatizzavano con pitture "infamanti" delitti contro la sicurezza della città, il suo territorio e il suo assetto economico. Quest'ultimo uso dell'immagine era giuridicamente regolato e penalmente rilevante, teso a documentare e a render noti il reo, la colpa e la pena.
Anche Firenze conobbe questi usi della pittura. Delle pitture infamanti dei falliti contumaci a fine Duecento si occupava il Capitano del Popolo; ma il palazzo accolse negli stessi anni, all'interno e all'esterno, anche manifesti pittorici di più mirata marca politica, contro i misfatti dei ghibellini e dei bianchi: i conti Guidi dipinti «come predoni da strada», per l'aggressione a un mercante in terra fiorentina (1291); gli "sbanditi" Gherardini «in atto di mozzare gli zoccoli agli animali da soma» per sabotare i rifornimenti granari a Firenze; la ribellione di Pistoia (1301) e del castello di Montaccianico (1302); il fallito tentativo degli Ubaldini di impadronirsi di quello di Pulicciano (1303).
Non è noto a Firenze un equivalente della serie di castelli conquistati che nel Palazzo Pubblico di Siena impegnò Duccio e poi Simone Martini. Ma una provvisione del 1329, tesa a restringere – all'indomani della signoria di Carlo di Calabria – gli spazi dell'affermazione personale, cita fra i soggetti che ai magistrati forestieri sarebbe stato permesso far rappresentare le «vittorie o conquiste di città o di castelli da parte del Comune di Firenze».
Nella Toscana del primo Trecento i due media principali (immagine e poesia) sono accomunati dall'impronta rivoluzionaria di grandi modelli: Dante e Giotto e dalla dilatazione delle funzioni e del pubblico. Questa alleanza si risolse in un formidabile potenziamento dell'efficacia comunicativa della pittura politica di Firenze e di Siena, che nelle iscrizioni dantesche della Maestà di Simone Martini e del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti conserva gli esempi più alti di una prassi fiorita su radici fiorentine.
Per Firenze stiamo ragionando però di immagini che non vediamo più. Le vicende della storia e del gusto, che a Siena hanno risparmiato una galleria d'arte civica estesa dal primo Trecento agli sgoccioli della Repubblica, a Firenze hanno decimato quanto in parte ancora Giorgio Vasari – tra i responsabili dell'ecatombe di immagini – poteva vedere al Bargello, a Palazzo Vecchio, nelle sedi delle Arti e alla Mercanzia. Alle fatalità e alle mutate esigenze della politica (che già in età protomedicea, e più in epoca ducale impose riqualificazioni e reinvenzioni di strutture, spazi e decori), si sono aggiunti da un lato i cataclismici sventramenti ottocenteschi, con l'azzeramento del tessuto del centro – incluse parecchie sedi delle Arti –, e d'altro lato, in singolare intreccio con le demolizioni, gli spesso ben intenzionati ma snaturanti rifacimenti "in stile" fra il XIX e l'inizio del XX secolo.
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la rassegna
Apre dal 14 maggio all'8 dicembre nella galleria dell'Accademia di Firenze la mostra «Dal giglio al David. Arte Civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento», una rassegna molto originale che offre al pubblico importanti opere d'arte di epoca comunale e repubblicana, nate originariamente per arricchire i palazzi pubblici di Firenze, gli edifici che ospitavano le magistrature che amministravano la città, le sedi delle Arti – le antiche corporazioni dei mestieri –, la cerchia di mura cittadine.
L'esposizione prenderà in considerazione temi come l'araldica cittadina, la religione civica, i luoghi emblematici della città (Palazzo dei Priori, Palazzo del Podestà, Orsanmichele e le parti politiche dominanti) illustrando quali fossero i temi figurativi prescelti e offrendo una corretta chiave di lettura di numerose opere d'arte presenti.
La rassegna è curata da Daniela Parenti e Maria Monica Donato che presenta in questo articolo alcuni argomenti chiave dell'esposizione.

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