ArtEconomy24

Il Manifesto di Max (a colori)

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

Il Manifesto di Max (a colori)

Il dipinto scelto dalla Fondation Beyeler come immagine-guida della grandiosa retrospettiva di Max Ernst si intitola L'angelo del focolare. Ma il protagonista è tutto fuorché una creatura gentile. L'opera è del 1937, l'anno di Guernica. E come Guernica fu suggerita al suo autore dalle atrocità della guerra civile spagnola: «La dipinsi dopo una sconfitta dei repubblicani», dirà Ernst. Così come Picasso dipinse il suo quadro-manifesto dopo il bombardamento della città spagnola da parte della Legione Condor dell'aviazione nazista, giunta in soccorso di Francisco Franco. Ma se il mediterraneo Picasso punta sulla pietas e narra lo strazio della popolazione, congelando poi l'intera scena nel non-colore del bianco e nero, il tedesco Ernst sceglie di raffigurare la potenza distruttrice della guerra con una figura allegorica terrificante (forse proprio un condor, a ben vedere) che avanza con una marcia fragorosa e inarrestabile, mulinando i suoi artigli e – par di sentirla – stridendo orribilmente da quel becco irto di zanne. Il tutto in un trionfo di colori squillanti, che potenziano la sensazione di forza incontenibile.
I due artisti sono stati spesso accostati, e non solo per la tangenza che lo spagnolo ebbe con il Surrealismo, di cui Ernst è stato uno dei più grandi e fedeli interpreti, ma anche per l'incredibile varietà di stili e di tecniche praticati da entrambi, che – notava già William S. Rubin – fa di «Max Ernst per il Surrealismo ciò che Picasso è stato per l'intera arte del XX secolo»: un profeta.
Lui, terzo dei nove figli di un pio e rigidissimo insegnante di Colonia, studente universitario modello di filosofia, psicologia, psichiatria e storia dell'arte, nel 1919, a 28 anni, mise in atto la sua rivolta contro ogni autorità e fondò con Hans Arp il gruppo dada di Colonia. E dopo i primi, inquietanti dipinti notturni, in cui ancora attingeva a fonti disparate, prese a creare sofisticati collage con carte da parati o frammenti di stampa popolare – persino manuali di lavoro a maglia – ritagliandoli con il bisturi, poi dipingendoli meticolosamente e incollandoli in composizioni allucinatorie, abitate da creature ibride e mutanti, corpi amputati, pezzi anatomici, strumenti di (scientifica) tortura. Un mondo da incubo, presentato però nelle forme educate e rispettose delle riviste per famiglie dell'800.
Inevitabile che André Breton, quando Ernst nel 1922 arrivò a Parigi, lo accogliesse nel suo gruppo e che, entusiasta di ciò che portava con sé, giudicasse quei suoi lavori «fondamentali per la pittura surrealista».
La splendida mostra curata da Werner Spies e Julia Drost con Raphaël Bouvier, prodotta dalla Fondation Beyeler con l'Albertina di Vienna, da cui proviene, prende le mosse di qui, poi segue Ernst lungo l'intero percorso, soffermandosi sulla sontuosa e dissacrante stagione surrealista (che dire di quella Vergine che sculaccia il Bambino, le natiche arrossate, l'aureola miseramente caduta a terra, di fronte a Breton, Eluard e Max Ernst?) ed evidenziando la pluralità delle sue tecniche: il collage, il frottage, con cui nel 1925 compone una chimerica Histoire naturelle sfregando la matita su superfici irregolari come il legno; il grattage (strati e strati di pittura poi raschiata via, dopo aver posto sotto la tela reti metalliche o altro, la cui texture affiora così sul dipinto); il dripping – per lui "oscillation" – che Pollock apprenderà da lui; la decalcomania (vetri chiazzati di pittura pressati sulla tela) e le "collage novel", antenate delle nostre "graphic novel", fatte con i suoi collage allucinati. Era infatti costantemente in cerca di nuovi mezzi espressivi, teso – sulle orme di Nietzsche – ad andare Au delà de la peinture: così intitolò la sua prima personale parigina (tutti collage) del 1921, poi un suo saggio del 1937: perché solo con questi linguaggi "eretici" sentiva di poter tradurre sulla tela il suo immaginario sconvolto, oppresso da un sentimento costante di una minaccia.
La sua arte, come per tutti i dadaisti e surrealisti, è figlia della Grande guerra: «Max Ernst è morto il 1° agosto 1914. È tornato in vita l'11 novembre 1918 come un giovane uomo che voleva essere un mago e ritrovare i miti del suo tempo» dirà di sé nel 1942 dagli Stati Uniti dove si era rifugiato, in fuga dal nazismo e da un'altra guerra. L'orrore vissuto al fronte non lo abbandonerà più, come tanti altri surrealisti. Anche perché, come ripeteva il loro profeta André Breton, l'arte surrealista si nutre di un'«iconografia della premonizione».
Ecco allora, tutte rappresentate da sequenze mozzafiato di opere, le sue Foreste dei secondi anni '20, cupe e impenetrabili muraglie di alberi "minerali", sprofondate in un tempo primordiale o da Day-after, che il sole non riesce a penetrare. E in contemporanea le Horde di figure mutanti allacciate in danze (o lotte?) barbariche, allegorie di un tempo di cui avverte le convulsioni. Poi, negli anni '30, le giungle a un primo sguardo bellissime, ma popolate da creature orribili e voraci, alla Bosch, e le Entire City: città-fortezze (create con il grattage) in apparenza inespugnabili e invece pronte a franare.
E anche quando dal 1941, grazie a Peggy Guggenheim (per breve tempo sua terza moglie), si trasferisce negli Stati Uniti con l'intero "stato maggiore" surrealista, i suoi paesaggi, ora eseguiti con le forme spumose, spugnose, sfuggenti della decalcomania, non sono meno visionari. Henry Miller lo definisce in modo folgorante: «Ernst è nato dépaysé: un uccello migratore, fuggitivo, sotto sembianze umane». E un uccello, «Loplop, my private phantom», lui sceglie infatti come suo alter ego.
Negli Stati Uniti mette a punto la tecnica dell'oscillation, trasformata da Pollock nel dripping, usando una lattina forata appesa a un filo e riempita di pittura: il dipinto Young Man Intrigued by the Flight of a Non-Euclidean Fly allude proprio a lui, mentre opere come Renish Night o The Eye of Silence hanno lasciato tracce evidenti sul cinema d'animazione americano. Solo al ritorno in Europa, con Dorothea Tanning, e con la fama ritrovata grazie al Gran Premio della Biennale di Venezia del 1954, la sua pittura si fa più armoniosa e pacificata: evoca luminose cosmogonie, rende omaggio a filosofi, poeti, alla Francia che lo accoglie di nuovo, mentre si accresce il suo impegno nella scultura, perché, dice, «la scultura è gioco, molto più della pittura». E lui, come dirà Georges Bataille con un ossimoro fulminante, è «un filosofo che gioca».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Max Ernst, Basilea, Fondation Beyeler, fino all'8 settembre. Catalogo Hatje Cantz. www.fondationbeyeler.ch

© Riproduzione riservata