ArtEconomy24

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

La kermesse fieristica di Abu Dhabi e la Shanghai Art Fair danno il ritmo agli affari. Da noi gli acquirenti ci sono, ma senza le cifre «orientali» La crisi non c'è più. Un brivido di paura ha scosso gli operatori dell'arte contemporanea dopo il 2008, tanto da farci considerare la clamorosa asta auto-organizzata in quell'anno da Damian Hirst, in cui vendeva gli arredi-opere del suo ristorante Pharmacy, come un canto del cigno del mercato. Ma poi il volume d'affari è ritornato come prima, anzi meglio. Hirst ha aperto questo ottobre un nuovo Pharmacy Juyce Bar insieme a Miuccia Prada presso Doha. Il 13 novembre un trittico di Francis Bacon è stato battuto da Christie's per 142,4 milioni di dollari, un record assoluto, mentre nel 2009 una sua opera stimata circa tre milioni era rimasta clamorosamente invenduta. Allora è tutto come prima del terremoto?
No. Lo «sboom» descritto da Adriana Polveroni in un suo libro del 2009 è ancora tra noi. L'Italia si è riavviata solo per i classici, ma è sparita una fascia di compratori giovani e disposti a rischiare. Parallelamente, molte istituzioni pubbliche hanno dovuto, per legge, tagliare dell'80% il budget dedicato alle esposizioni.
Anche all'estero, tra il 2008 e il 2009, mostre-mercato tra cui la «Moscow Fine Art Fair», l'«Art Cologne Palma», l'«Asian Art Fair di New York» se la sono vista brutta o sono state cancellate. Ma negli ultimi anni, di fiere, ne sono nate molte altre o sono diventate più forti quelle che avevano saputo ristrutturarsi.
Il punto è che il mondo dell'arte contemporanea è uno tra i settori più marcatamente internazionali che ci sia, quindi il successo economico dell'Est tiene in piedi la baracca anche a Ovest, laddove l'economia si è un po' ripresa. Anzi, la sta facendo diventare un palazzo ancor più florido e barocco di quanto non fosse prima, quando di fronte a certi record molti erano disposti a parlare di bolla speculativa.
Se di bolla si trattava allora, ora è un pallone e non si sgonfierà facilmente. Spendere in opere o farsi mecenati è il nuovo gioco degli emiri, per esempio, come dimostra il caso della bella sceicca Al Mayassa che regna in Qatar: certi che il tempo del petrolio finirà, i Paesi che si sono arricchiti grazie a esso stanno riconvertendosi ad altro e uno degli ambiti prescelti è la cultura, con attenzione crescente all'arte contemporanea. In fondo è un modo per far circolare moneta, ma anche, con adeguate operazioni di scambio sempre più calcolate, per stamparne di nuova. Un'opera che decuplica il suo valore è anche questo: partenogenesi di soldi, purché si sappia rivendere al tempo giusto.
Senza interessi di questo tipo, uniti alla relativa opacità che certi beni hanno di fronte al fisco e alla loro facilità di spostamento, non capiremmo il ritmo vorticoso delle fiere maggiori. A novembre si è svolta a Abu Dhabi la «Quinta edizione della Fiera d'Arte» che ha iniziato a raccogliere gallerie asiatiche e internazionali, quasi contemporaneamente alla «Shanghai Art Fair»: diciassette anni di successi inseguendo i gusti dei nuovi ricchi cinesi, quelli che ormai, ogni anno, comprano un terzo delle opere d'arte in vendita in tutto il mondo. «Miami Art Basel», l'appuntamento di dicembre, non va mai male perché tra cocktail, feste e spiaggia ci si diverte comunque, ma sono le fiere orientali che fanno la differenza; non a caso il gigante «Art Basel», pur tenendosi caro il suo appuntamento annuale a giugno, dal 15 al 18 maggio aprirà la sua terza sezione a Hong Kong.
Ecco che allora la nostra «Fiera di Bologna», che usualmente è il primo appuntamento dell'anno, ora si trova a competere con l'«India Art Fair di New Dehli», in programma dal 30 gennaio al 2 febbraio. In Europa tengono bene la «Fiac di Parigi» e «Frieze di Londra», cioè fiere che hanno la loro base in città che restano modelli da perseguire e che offrono musei sempre attivi, resi vivaci dalla buona gestione, con programmi espositivi decisi tre anni in anticipo e premiati dal pubblico al punto da necessitare ampliamenti: la Tate Modern sta rinunciando al suo sacrale volume monolitico pur di erigere una nuova, enorme ala che sta mangiandosi la piazza antistante.
Persino la fiera londinese «Frieze», tuttavia, sente il bisogno di sdoppiarsi e dal 9 al 12 maggio il suo clone sarà alla «Randall's House di Manhattan». Inviti vippissimi e programmi dorati servono ad attirare i protagonisti della ripresa americana, ma soprattutto gli asiatici in vena di fare un viaggio.
Deve valerne la pena, però, perché ormai in Oriente non manca nulla: l'ultima edizione di «Shanghai Art» ha visto circa mille gallerie da cinquanta Paesi, ma soprattutto ha mescolato opere di artisti locali a quelle di autori quali Picasso, Rembrandt, Chagall, Dali, Renoir, Monet.
Come, ma soprattutto dove, stavano andando le cose lo si sarebbe potuto capire quando la galleria francese Sayegh vendette il Pensatore di Auguste Rodin, nel 2000, per un milione di dollari. La compratrice fu una Company locale, la Pudong Lianyang Land Development, che si impegnò a trattenere la scultura per sempre a Shanghai.
Anche noi italiani proviamo a fare come se nulla fosse, anzi aumentiamo il numero degli appuntamenti fieristici su un territorio già saturo. Ma la ragione qui non sono le vacche grasse. La ricchezza si è spostata e non tornerà sulle nostre coste a meno di miracoli geopolitici.
I nostri artisti sono da sempre poco attrattivi per un mercato fondato sulla speculazione giacché non possiamo dare, come sistema-Paese, le garanzie di crescita e di tenuta che accompagnano sempre il successo commerciale di un nome. Se la cavano bene Fontana e Boetti, ma non i cosiddetti minori. I ricchi internazionali comprano perché è un gioco intellettuale, perché fa status, perché l'Occidente capitalista è riuscito a esportare, col suo modello economico, anche l'idea di arte che lo accompagna. Ma nessun collezionista coreano sprecherebbe tremila euro per comperare opere di un giovane italiano, a meno che questi non sia protetto da un paio di gallerie straniere (e in questo caso, gli euro da sborsare sarebbero almeno ventimila).
Da noi le fiere proliferano per motivi opposti a quelli internazionali.
«ArteFiera a Bologna», «Artissima di Torino» o «Miart di Milano» sanno tenere un profilo dignitoso e sono un terreno piacevole per incontrarsi e persino per consolarsi. Molte gallerie partecipano perché non riescono a superare le liste di attesa per «Art Basel» o «Frieze». I compratori italiani ci sono, purché le opere stiano sotto certe cifre. Sono disposti ad acquistare autori nostri anche solo emergenti perché comunque resistono un gusto, una tradizione e un linguaggio che ogni Paese coltiva, anche quando, come succede a noi, assurdamente se ne vergogna un po'.
E poi le fiere italiane, Bologna prima di tutte perché è più vecchia e lo ha insegnato alle altre, hanno saputo coltivare una formula-movida che accompagna le proposte commerciali a serate in cui si succedono opening, tortellini ed eventi in cui ci si scambiano informazioni e contatti. Le iniziative collaterali nostrane sono ciò che i tempi permettono, ma contano quantomeno per rafforzare una comunità. Gruppi che, qui in Italia, possono anche svolgere una funzione di stimolo sulle amministrazioni e di aiuto verso gli artisti.
Le grandi gallerie straniere si sentono minacciate dalla crescente confusione di ruoli: le case d'asta competono sempre di più con i mercanti, attraverso vendite private di cui non si conoscono bene i prezzi e mescolando il primario (quello che esce dallo studio dell'artista) col secondario (ciò che è già stato comperato e rivenduto almeno una volta). Nel 2012 Christie's e Sotheby's hanno venduto fuori dal meccanismo delle aste, cioè in sede separata e come fossero galleristi, più o meno quanto il decano della categoria Larry Gagosian. Ma non hanno la stessa propositività culturale di una galleria; puntano proprio solo ai conti.
Per tutto questo le fiere, che proteggono questa categoria e che si sono sviluppate ben oltre il semplice incontro tra domanda e offerta economiche, restano ovunque importanti.
Da noi contano anche di più: per i motivi già detti e perché, in questo mare di soldi che non ci lambisce più, sono un modo per difendere ciò che resta del nostro posto nel mondo. Un posticino un po' disidratato, ma Nostrum.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© Riproduzione riservata