ArtEconomy24

  • Abbonati
  • Accedi
In Primo Piano

Fallo. Non mettere tempo in mezzo, leggiti le istruzioni e incomincia ad agire. Non importa quanti piccoli errori potrai fare nell'eseguire il compito, faranno parte del risultato finale. L'importante è l'azione che mette in segna l'ideazione, e non importa se quest'ultima sia tua o tratta da un ricettario scritto da un grande autore.
Questa è da almeno quindici anni l'anima di “do it”, la filosofia operativa di Hans Ulrich Obrist, il curatore più influente del mondo, che abbiamo visto in molti piccoli libri e che ora trova il suo Compendium in un grosso libro arancione. Il volume, edito da quella scuola sui generis che è l'Independent Curators International, luogo di elaborazione teorica molto estrema a New York, contiene varie introduzioni a questa pratica con riflessioni, tra l'altro, dello storico delle mostre Bruce Altshuler e di alcune tra le voci più nuove e accreditate del settore: Virginia Perez-Ratton, Katie Fowles, Frances Wu Giarratano ed Elizbeth Presa. Fin da quando, giovanissimo, Obrist ha incominciato a curare esposizioni nella cucina della sua casa svizzera o nella stanza d'albergo dove viveva a Parigi, ha cercato di rinnovare l'idea stessa di mostra. La serie “do it” è nata in questo contesto, raccogliendo istruzioni di artisti e mettendole in pratica o anche solo lasciandole sulla pagina.
Altshuler traccia i precedenti di questo atteggiamento, che oggi trae molte applicazioni nella frequente pratica del “rimettere in scena”: pensiamo alle performance di altri interpretate da Marina Abramovic o dalla riedizione a cura di Germano Celant, nel 2013, della mostra When Attitudes become form nata nel 1969 per mano di Harald Szeemann.
Le premesse fondamentali per il compendio di Obrist sono in effetti articolate. Anzitutto vi è l'amore per le istruzioni scritte che conducono all'opera, che possiamo riscontrare in momenti quali le istruzioni date al telefono per l'esecuzione di un'opera da Lazlo Moholy-Nagy, alcune indicazioni di Juan Mirò e i molti casi in cui Marcel Duchamp demandò la parte manuale del lavoro, per esempio quando spedì a sua sorella Suzanne l'idea di fabbricare da sé il suo regalo di matrimonio: appendere un libro di geometria alla finestra in modo che il vento potesse scegliere per loro i problemi da risolvere. Al di là del loro aspetto di boutades, questi atteggiamenti celavano un'allergia verso l'espressione artistica intesa come momento in cui il soggetto, attraverso la corporeità e la manualità, esprime se stesso senza l'intercapedine della ragione. Tale moto antiromantico ebbe un nuovo apice quando, negli anni cinquanta, l'espressionismo astratto americano rese di nuovo attuali le insistenze sul sentire individuale e su di un fare irriflesso, proliferate dall'Ottocento allo spirito fauve dei primi del Novecento.
Si spiega così il nuovo corso delle istruzioni, che trovò un paladino in John Cage e nelle sue lezioni presso la New School of Social Research a New York. Aderirono al suo credo anti-manuale molti dei protagonisti dell'area Fluxus, da George Brecht a Jackson McLow, fino a raggiungere Allan Kaprow che ne dedusse un intero volume teorico sull'happening come incrocio, appunto, tra istruzioni dell'artista e relazioni con il pubblico.
Un'ulteriore precorritrice fu Yoko Ono, sposata allora allo studente di Cage Toshi Ichiyanagi. Con lui e con La Monte Young, nel loft che condivideano a Chamber Street, prese corpo il suo contributo che mescola la poesia breve orientale in stle hayku e la ricetta, appunto, che nel suo caso iniziava sovente con il fatidico verbo “imagine”. Dopo alcuni anni di esercizi, nel 1964 presentò in giappone il libretto Grapefruit in cui erano raccolti tutti i suggerimenti migliori. Ancora oggi, del resto, Ono diffonde quasi ogni settimana via facebook nuove istruzioni, che sta al piacere del lettore mettere in pratica o meno.
La temperie minimalista e concettuale impose ancora più distanza tra l'artista e l'opera realizzata. Il curatore/artista Seth Siegelaub nel 1968 ridusse a pure note scritte le mostre di Douglas Huebler e Di Lawrence Wainer che propose, ma non realizzò, «due minuti di di pittura spray direttamente sul pavimento da una bomboletta spray standard». La storica collettiva del gennaio 1969, con Robert Barry, Douglas Huebler, Joseph Kosuth e Lawrence Weiner, consistette sopratutto di un catalogo in cui si diceva: «Questa mostra consiste di (idee comunicate in) un catalogo; la presenza fisica (del lavoro) è supplementare al catalogo». Su questa falsariga, Lucy Lippard ospitò in una sua mostra l'opera di Robert Smithson che consisteva in indicazioni per costruire un'opera con quattrocento fotgrafie dell'orizzonte nel deserto di Seattle fatte con una Kodak Instamatic.
Obrist aggiunge a questo clima lontano il contributo dello spiazzamento geografico, o piuttosto della ridefinizione che un'opera acquista in ciascun luogo o contesto essa venga realizzata. La storica mostra Cities on the move, curata con Hou Hanrou e ricostruita sempre differente in sette città del mondo, ha iniziato a mettere l'accento su questa impossibilità di ripetere le istruzioni in modo identico. E da allora, più o meno in tutte le mostre che ha incominciato a definire «evolutional exhibtions», le premesse fondamentali sono una resa volontaria al modo in cui ciascuno vive la temporalità, un'apertura a discipline diverse che usano simili metodi, dalla fisica alla biologia all'urbanistica, sempre calcando la mano sull'idea del laboratorio e di processi dallo sviluppo indeterminato, così come su un metodo inclusivo che lascia agire i contributi di spettatori, teorici, artisti, curatori, tutti coloro che si impegnano nel “fare” e anzi nel “farlo”.
Un altro aspetto che ci arriva da Obrist è la consapevolezza dell'urgenza: nel continuo succedersi di traumi che connota l'epoca contemporanea, occorre essere rapidi ed efficaci. Non dormire, viaggiare, reagire con prontezza di riflessi e capire come stiamo cambiando anche attraverso il modo in cui, di luogo in luogo e di tempo i tempo, mettiamo in atto in maniera diversa la medesima serie di istruzioni. Dove semplice e complesso, cultura individuale e culture plurali, temporalità soggettive e sentimenti collettivi trovano un nuovo connubio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Hans Ulrich Obrist, do it – the compendium, Independent Curators International, New York 2013, pag. 448

© Riproduzione riservata