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Su un muro della 15ª strada di Denver, la faccia intelligente di Clyfford Still guarda giù da un cartellone in bianco e nero. Accanto a lui, la scritta: «La tela era la sua alleata. Colore e spatola, le sue armi. Il mondo dell'arte era il suo nemico». Ma chi era Clyfford Still? Chi lo conosce sa che era un espressionista astratto, della generazione di Rothko e di De Kooning. Chi non lo conosce, forse, ha una buona giustificazione: Still è stato, per la maggior parte della sua vita, profondamente ostile al cosiddetto Art World: galleristi, collezionisti, direttori di museo. Per sua volontà, o per conseguenza delle sue scelte radicali, solo il 6% della sua arte è stato esposto, visto, acquistato: circa 150 dipinti sono entrati nelle raccolte di musei o di collezionisti privati. Il restante 94% è rimasto nascosto. Sino a ora.
Nato a Grandin, Nord Dakota, nel 1904, cresciuto nelle praterie dell'Alberta, completamente autodidatta, approdato coi suoi lavori nelle gallerie e nei musei più importanti degli Stati Uniti e poi tornato volontariamente a recludersi in un relativo eremitaggio artistico e commerciale, Still è il protagonista di una storia da romanzo, che solo adesso è possibile raccontare interamente, adesso che a Denver, nel cuore del West, è nato e sta lavorando il Clyfford Still Museum. Una realtà che l'artista aveva immaginato e descritto nel suo testamento, nel 1978, quando due anni prima di morire aveva disposto di lasciare l'intera sua raccolta a una città degli Stati Uniti che avesse acconsentito a costruire per essa «quartieri permanenti» e a non frammentarla mai. «Lasciare, non vendere. A una città, e non a un museo. Americana, e non straniera» sottolinea Dean Sobel, direttore del Clyfford Still Museum, che fa notare come Still fosse consapevole della grandezza del suo lavoro, e spinto dal desiderio di farne dono al suo Paese, ma a modo suo.
Sobel, che incontriamo in occasione di una doppia inaugurazione – il riallestimento presso il Clyfford Still Museum della personale che Still tenne nel 1959 alla Albright-Knox Collection di Buffalo (NY), fino al 15 giugno, e la mostra «Modern Masters» al Denver Art Museum, fino all'8 giugno – da due anni e mezzo sta «spacchettando» la gigantesca eredità dell'artista. Un tesoro di oltre 800 tele, 2.200 lavori su carta, tre sculture, più il suo intero archivio: 40mila pezzi.
Quando nel 2004 dopo vari tentativi falliti, la vedova di Still accettò l'offerta di Denver, la città raccolse 29 milioni di dollari (più altri 5 per i costi "operativi" del museo) in donazioni private. È sorta così questa struttura di cemento grezzo e legno, progettata dallo studio Allied Works per essere austera e luminosa come l'artista a cui è dedicata.
Qui la storia personale di Clyfford Still si intreccia a quella della sua pittura, e a un pezzo di storia americana: è infatti la Grande Depressione a dare il tono ai primissimi quadri espressionisti, una fase figurativa sinora sconosciuta. Ma già negli anni Trenta i corpi si scompongono, l'astrazione prende piede: sarà Robert Motherwell, altro personaggio della compagine Ab-Ex, a dire: «Quando noi stavamo ancora lottando con la figura, nei suoi quadri non ce n'era già più traccia». Negli anni Quaranta la pittura di Still esplode: nel 1943 ha mostre personali in California, nel 1946 comincia a esporre a New York (dove vivrà poi per undici anni); si afferma immediatamente, lavorando con le gallerie di Peggy Guggenheim (una delle prime ad apprezzare e acquistare i suoi lavori) e di Betty Parsons. Ma nel settembre del 1951, con un gesto che definirà tutto il suo futuro, Still scrive alla Parsons una lettera di "divorzio" garbata e irrevocabile, conservata oggi all'ingresso del museo: da qui in poi, Still gestirà da solo il suo mercato.
Nel 1952 è con sette grandi dipinti fra i protagonisti di «15 Americans» al Moma, insieme a Baziotes, Rothko, Pollock. In quest'occasione, sia Still che Rothko insistono perché i loro lavori siano mostrati da soli, non accostati a lavori altrui. Un atteggiamento, quello della «single voice», che impronta tutta la carriera di Still, il quale pretende di avere il controllo assoluto su cosa esporre e come farlo. Arriva al punto di andare a riprendersi le tele a casa dei collezionisti, in qualche caso anche in modo violento, staccandole dal telaio con un coltello. Soprattutto, esige che i suoi lavori rimangano insieme: anche quando, negli anni Sessanta e Settanta, farà donazioni o vendite a musei di Buffalo, di San Francisco, di Philadelphia, di Washington, lo farà in blocco, per nuclei.
Nel 1957, Still viene invitato a rappresentare gli Usa alla Biennale di Venezia. Rifiuta, per evitare quelle che considerava «le macchinazioni dei grandi eventi internazionali». Quattro anni dopo, compra una tenuta nel Maryland rurale e vi si trasferisce con la seconda moglie. Per vent'anni vive fuori da un sistema che non gli garba, ma che non lo dimentica. Nel 1979 infatti, quando Still sa già di essere malato, il Metropolitan gli dedica una retrospettiva con 79 dipinti, la più ampia mai concessa a un artista vivente. Lui ha continuato infatti, più che mai, a dipingere: da dieci a trenta quadri l'anno, migliaia di disegni.
Ecco perché il Clyfford Still Museum è un piccolo grande miracolo, oltre a essere un luogo incantato per chiunque ammiri le opere di Still: si tratta della realizzazione perfetta di un sogno d'artista. In mostra permanente ci sono i quadri, mai esposti, della sua figurazione: i volti distorti dei «farmers» e i paesaggi dei grandi spazi americani, dai quali spesso si leva un filo di fumo verticale che diventerà poi, nell'astrazione, la famosa «zip», invenzione contesa tra Still e Barnett Newman. Ci sono le tre uniche sculture. E ci sono soprattutto i quadri astratti di grande e grandissimo formato, dipinti a partire dagli anni Quaranta: i capolavori mai visti.
Questi dipinti potenti, paesaggi interiori dei colori della terra, squarciati da artigli di giallo, di rosso e di nero, stanno ancora oggi uscendo dalle casse. Still li dipingeva e poi arrotolava, uno dentro l'altro, fino a undici tele in ogni rotolo, quando ancora stavano asciugando. E infatti nei depositi del museo c'è odore di solventi, di colore fresco. Entrarci, mentre i conservatori guidati da James Squires srotolano, intelaiano, fotografano, restaurano, archiviano, è la cosa più simile a una "studio visit" che si possa fare, nel caso di un artista che non c'è più.
L'altra meraviglia del museo è contenuta in scatole più piccole, e fa di Denver un vero e proprio centro studi sull'opera di Still e dei suoi amici-nemici: è l'archivio del pittore. Centinaia di lettere (magnifiche quelle, amichevoli prima e poi via via più ostili, tra lui e il "commerciale" Rothko), migliaia di fogli, appunti, inviti, fotografie; persino filmati in Super 8 che sono ancora tutti da guardare. È così che l'odiato Art World lo fa rivivere, trent'anni dopo la sua morte, proprio nella casa che l'«irascibile» Clyfford Still aveva desiderato per la sua pittura.
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da vedere

Tra mostre e collezioni

A Denver ci sono altre scoperte da fare, collegate al nuovo Clyfford Still Museum, alla storia del collezionismo americano e a realtà statunitensi di altissimo livello poco menzionate in Europa.
Il museo dedicato a Still è nato infatti in gemellaggio stretto (anche fisico, dal momento che gli è stato costruito accanto) con il Denver Art Museum, un esempio di costante evoluzione museale. L'ala "vecchia" del DAM è stata progettata dal nostro Gio Ponti nel 1971, e contiene una raccolta di 70mila pezzi che spazia dall'arte precolombiana alla fotografia contemporanea, passando per i manufatti dei nativi americani e per i dipinti dei grandi paesaggisti del West come Albert Bierstadt. Nel 2006, una passerella aerea l'ha connessa alla nuova ala disegnata da Daniel Liebeskind, nella quale trovano posto installazioni site-specific d'arte contemporanea e mostre tematiche.
Qui fino all'8 giugno la rassegna «Modern Masters» porta a Denver una porzione mozzafiato della Albright-Knox Art Gallery di Buffalo (New York), che è a sua volta un museo costruito dai grandi collezionisti del Novecento: fondata da John J. Albright, arricchita dalla famiglia Knox, ha beneficiato anche della generosità di Giuseppe Panza di Biumo, che le ha donato 71 opere di 15 artisti.
Per la mostra sui maestri della modernità, da Buffalo sono arrivati in Colorado pezzi memorabili che vanno dall'Ottocento alla Pop Art: si parte con un curioso ma riuscito accostamento fra Bridget Riley e il postimpressionismo, e si prosegue con opere capitali di Guston, Pollock, Frankenthaler, Kline, Still, Pollock, Motherwell, De Kooning, Liechtenstein, Warhol. Oltre settanta capolavori che si spostano da una città americana all'altra, aprendo uno scorcio sulla capacità di fare network che caratterizza i musei Made in Usa.
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www.clyffordstillmuseum.org
www.denverartmuseum.org
www.albrightknox.org

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